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giovedì 23 aprile 2020

Hyperia - Insanitorium

#PER CHI AMA: Death/Thrash, Testament, Over Kill
Da Calgary ecco arrivare gli Hyperia con tutto il loro carico death thrash contenuto nel loro full length d'esordio 'Insanitorium'. Se vi state già chiedendo quali possano essere le peculiarità di una band in un genere che ormai ha detto proprio tutto, potrei partire col dirvi che il vocalist è una donna ad esempio, che si dipana tra un cantato pulito ed un growling bello corposo. Niente di nuovo qualcuno di voi potrebbe obiettare, visto l'esempio degli Arch Enemy, un nome diventato famoso per la sua frontwoman Angela Gossow, e in effetti non potrei controribattere. E allora proviamo a dare un ascolto attento all'opening track "Mad Trance", una song che mette in luce immediatamente le qualità compositive e distruttive dell'ensemble canadese. Ottima la verve ritmica e melodica del quintetto, potente la furia chitarristica, anche a livello solistico, faccio fatica semmai a digerire la voce di Marlee nella sua veste pulita (e più urlata) che sembra prendere spunto da quella degli Artillery ma con un effetto meno convincente, un qualcosa su cui lavorerei un po' di più in ottica futura. Dove la compagine sembra convincere maggiormente è invece la componente musicale, visto che i nostri sanno come fare male e dove colpire al cuore l'ascoltatore. Lo dimostra assai bene "Starved by Guilt", con un uno-due ben assestato e udite udite, una componente vocale che si presta ad essere ben più convincente nelle tonalità più baritonali. Il disco suona però come un tributo al thrash metal anni '80 e non solo per una cover che rimanda a quegli anni, ma in generale per un rifferama che chiama in causa gli Slayer nell'incipit di "Asylum", le cavalcate dei primi Testament ("The Scratches on the Wall") o ancora gli Exodus, sfoderando proprio come quei mostri sacri, ottime prove strumentali. Interessante a tal proposito il bridge proprio della già citata "Asylum", cosi come quel suo chorus di scuola Over Kill, periodo 'Under the Influence' (lo si apprezzerà anche nella conclusiva e scoppiettante "Evil Insanity"). Insomma, per uno come me, cresciuto musicalmente negli anni '80 a botte di thrash ed heavy metal, è facile e inevitabile fare tutta una serie di confronti con gli originali. In "Unleash the Pigs", ci sento anche del power metal cosi come del melo death scuola Children of Bodom, tutte influenze che si fondono alla velocità della luce e scorrono altrettanto velocemente tra cambi di tempo, accelerate e cavalcate varie dal forte sapore heavy, per un disco senza tempo che farà la gioia di tutti i thrashettoni che hanno amato, come il sottoscritto, i grandi classici (dimenticavo di citare anche i Metallica di 'Kill'em All', gli Anthrax o i Megadeth nell'emblematica "Fish Creek Frenzy") o più recentemente, act quali gli Skeletonwitch. Che altro dirvi per invitarvi a questo "back to the past" con gli Hyperia? Un ascolto datelo, datemi retta.  (Francesco Scarci)

(Sliptrick Records - 2020)
Voto: 70

https://hyperiametal.bandcamp.com/album/insanitorium

domenica 19 aprile 2020

King SVK - New Æon

#PER CHI AMA: Experimental Death Metal, The Project Hate, Carnival in Coal
Dall'incipit mediorientaleggiante di "Ozymandias", mi sarei aspettato origini più esotiche per la band di quest'oggi, in realtà i King SVK sono un duo proveniente dalla Slovacchia (da qui deduco l'acronimo SVK nel moniker). 'New Æon' è il terzo album dal 2000 quando Ivan Kráľ (tastiere e synth) e Norbert Ferencz (chitarre), fondarono questa stravagante compagine. Il duo propone infatti un death metal moderno, melodico con tematiche incentrate sulla mitologia dell'antico Egitto, fuse con la filosofia di Friedrich Nietzsche. Da un punto di vista musicale, aspettatevi invece tonnellate di cyber death metal fatto di ritmiche belle pesanti ma comunque grondanti groove da tutti i pori, vocals che si dipanano tra il growl ed un cantato pulito un po' meno convincente (e da rivedere), ottimi cambi di tempo e quintalate di synth. "Hymnus Aton" è la seconda traccia che apre ancora con riferimenti arabeschi, per lasciare presto il campo ad un riffing a cavallo tra Meshuggah e Fear Factory e un incedere comunque sempre parecchio orecchiabile che forse travalica qui nel viking grazie all'utilizzo di alcuni cori epici. "Chant Of Praise Of Nimaatre" sembra invece provenire da qualche disco circense dei Pensées Nocturnes, ma la sensazione dura solo per pochi secondi, visto che la vigorosa band slovacca torna a sfoderare un rifferama bello compatto sul cui sottofondo sembrano collocarsi delle strane trombette. Lo spettro circense però torna a riaffacciarsi in più casi nell'irruenza fragorosa del brano. Con "Seeking of Being", song strumentale, ci lasciamo ammaliare dai suoni di un organo che fa da apripista al saliscendi chitarristico che trova anche in un break acustico, l'attimo ristoratore utile a darci la carica e ripartire di slancio con la musica dei King SVK, qui più che mai sperimentale, quando ampio spazio viene concesso al suono di quella che parrebbe una spinetta, e prima che i nostri si lancino in una rincorsa prog rock. E bravi i due musicisti, che devono avere un pedigree di tutto rispetto viste le qualità tecniche. Ciò è confermato a lettere cubitali anche dai successivi pezzi: "Homeless" in primis, dove sottolineerei una schitarrata iniziale in stile "death metal from Stockolm", a cui segue l'imprevedibile e abbondante utilizzo delle clean vocals che qui doppiano il growling maligno del frontman, in un esperimento riuscito ahimé solo a metà, colpa esclusivamente della voce pulita davvero fuori posto. Che peccato maledizione, perchè la cosa avrebbe avuto risvolti decisamente interessanti, ma potrebbe anche essere che le vostre aspettative non siano cosi alte quanto le mie e possiate anche passarci sopra. Io francamente faccio un po' fatica e me ne dispiaccio particolarmente perchè in queste note percepisco la forte volontà da parte dei due musicisti slovacchi di mettersi in gioco, rischiare il tutto per tutto con la carta della creatività e andando assai vicino a compiere il miracolo. Niente paura, ci riprovano anche nella ancor più stralunata "Venetian Night" dove è una (o più?) voci femminili a provare a sostenere il riffing brutale dei nostri in un esperimento affine a quello degli svedesi The Project Hate; tuttavia anche qui la componente vocale non si rivela all'altezza. I nostri comunque non si perdono mai d'animo, vanno avanti nella loro strada pur ricascandoci in "Sea in the Soul" (da rivedere quindi il casting per la voce), visto che le dolci donzelle mal si adattano ad un sound robusto che prova qui anche la strada delle orchestrazioni. Bene da un punto di vista musicale, c'è ancora da sistemare qualcosa in quello vocale. "After Swimming", con un bel po' di immaginazione, potrebbe somigliare col suo coro fanciullesco ad "Another Brick in the Wall" dei Pink Floyd, con la song che comunque ha un forte piglio prog fatta esclusione per le ritmiche possenti. Ma la ricercatezza in trame elaborate fa parte del duo slovacco, anche nella più schizofrenica "With Horus in the Sky", quando i nostri ritornano sulla strada maestra dei primi pezzi e si lanciano in rincorse chitarristiche qui ancor più complicate che in apertura, ma con un occhio puntato sempre alla tradizione egizia. Il viaggio con i King SVK si completa con "The Age of Aquarius", una song che mi ha richiamato alla memoria un che dei Carnival Coal, sia a livello vocale che musicale. Ora, dopo aver speso tre quarti d'ora in compagnia dei King SVK, senza ascoltarne la musica, potrete solo lontanamente immaginare quali siano i margini di follia di questi due personaggi. Dategli un ascolto, fatevi un favore. (Francesco Scarci)

sabato 18 aprile 2020

Abeyance - Portraits of Mankind

#PER CHI AMA: Swedish Death, Dark Tranquillity
Ah, ma c'è ancora qualcuno nel mondo che suona death melodico che chiama in causa i vecchi Dark Tranquillity? L'ho scoperto solamente oggi, con l'arrivo sulla mia scrivania dell'EP di debutto dei milanesi Abeyance, uscito sul finire del 2019 per la Sliptrick Records. 'Portraits of Mankind' è il lasciapassare dei nostri per farsi conoscere ad un pubblico più ampio. Dicevamo EP e Dark Tranquillity: cinque tracce quindi per un sound fresco e scorrevole come solo la band di Gotheborg riesce ancora a creare. Si parte in tromba con la title track e un riffing serrato che mette in mostra una bella melodia di sottofondo come da insegnamenti di Mikael Stanne e soci. E poi un saliscendi dinamico di chitarre, breakdown, rallentamenti e finalmente degli assoli interessanti. L'attacco della successiva "In Falsehood Dominion" sembra un estratto da un qualsiasi disco dei Dark Tranquillity, anche se proseguendo nell'ascolto, il muro ritmico si fa più violento, con i vocalizzi del frontman piuttosto radicati nel growling death metal, quello comprensibile però. Poi un'altra frenata e la song s'incanala dalle parti di un mid-tempo, prima della sassaiola finale molto più vicina al post-black che al death metal. Un pianoforte introduce "Mine Are Sorrow and Redemption" (quante volte l'hanno fatto anche i nostri idoli svedesi?), giusto una manciata di secondi e poi via con il muro di chitarre, stop'n go, spoken words in sottofondo, i motori si scaldano per partire a mille, ed eccomi accontentato. Probabilmente il canovaccio è piuttosto scontato, ma il risultato non è affatto male in termini qualitativi. E forse la prima considerazione che farei su questo dischetto in ottica futura, è proprio quella di lavorare sull'imprevedibilità della musica, aumentando in questo modo la longevità d'ascolto della band meneghina. Le qualità per fare bene infatti ci sono tutte e questo è dimostrato anche dall'assolo progressive in coda a questo pezzo. Poi, ascoltando le successive "Innerscape" e "Secretly I Joined Dark Horizons", non posso che apprezzarne i contenuti, sebbene si tratti di un paio di pezzi un po' più classicheggiante nel loro incedere e quindi troppo ancorate a stilemi che forse andavano di moda una ventina d'anni fa. E qui arriva la mia seconda considerazione: cerchiamo di lavorare maggiormente in termini di creatività e personalità, mettendo da parte gli indottrinamenti dei maestri. 'Portraits of Mankind' è sicuramente un bel rodaggio, ma in futuro mi aspetto grandi cose dagli Abeyance, quindi attenzione, che vi tengo sott'occhio! (Francesco Scarci)
 

domenica 22 aprile 2018

Eternal Silence - Mastermind Tyranny

#PER CHI AMA: Symph/Gothic, Within Temptation
Con una copertina ed un’introduzione che sembrano provenire direttamente dalle profondità più remote dell’inferno, è lecito aspettarsi da 'Mastermind Tyranny' un’anima piuttosto brutale, degna delle lande più estreme del death. Invece, sorprendentemente, una volta superato il diabolico monologo introduttivo ed il primo riff, ci accolgono delle sonorità meno “cattive” del previsto. Le tematiche comunque esoteriche di quest’ultimo lavoro della band nostrana degli Eternal Silence, vengono sostenute infatti da un impianto piuttosto melodico, un symphonic metal ricco di orchestrazioni che viene alternato a qualche cavalcata più potente, come nel primo brano "Lucifer’s Lair". C’è spazio anche per qualche contaminazione elettronica come in "Game of the Beasts", fra le sue numerose variazioni di tempo. Le liriche oscure e strazianti vengono incarnate con maestria dalla voce di Marika Vanni, forte di una buona estensione e di grande potenza espressiva, che si percepisce soprattutto in brani come la ballad "Adagio" (la quale richiama i Within Temptation più recenti). Le vocals sono spesso alternate con la timbrica maschile di Alberto Cassina, secondo chitarrista e principale compositore del gruppo lombardo, che si occupa anche degli arrangiamenti orchestrali per questo disco. L’album procede in modo piuttosto lineare sino alla conclusione, senza troppe sorprese rispetto ai canoni del symph/gothic in cui si inserisce l’ensemble di Varese. Manca forse quell’idea, quella “scintilla” che faccia decollare l’ascolto di 'Mastermind Tyranny', nonostante rappresenti una buona prova per il gruppo, che dimostra di aver maturato un proprio stile rispetto ai precedenti album, a partire da un’ottima produzione, che ne evidenzia il notevole impegno. (Emanuele "Norum" Marchesoni)

(Sliptrick Records - 2017)
Voto: 70

https://www.facebook.com/eternalsilencemusic

giovedì 25 gennaio 2018

Samadhi Sitaram - KaliYuga Babalon

#PER CHI AMA: Death/Math/Djent, Dillinger Escape Plan, Meshuggah
I Samadhi Sitaram sono un terzetto proveniente da Mosca, approdati da poco alla corte della Sliptrick Records. L'intro di questo 'KaliYuga Babalon' è piuttosto fuorviante, complice una forte influenza della musica classica nel suo incedere, che mi porterebbe a pensare ad una proposta all'insegna di un melodeath di stampo svedese. La mattonata invece che mi arriva con "Kali-Yuga" mi pesa invece sulla faccia come un gancio tirato sulle ganasce dal buon Mike Tyson. L'attacco è isterico con le ritmiche che si muovono tra mathcore, djent e death, un po' come se sparaste alla velocita dei Dillinger Escape Plan, i Meshuggah. Chiaro il concetto? Se cosi non fosse, pensate che il finale infernale della song potrebbe ricordare il caos sovrano che regna in "Raining Blood", pezzo conclusivo del mitico 'Reign in Blood' degli Slayer. Passo oltre, smaciullato dalla potenza sonora di questi pirati del metallo: "The Death of a Stone" ha il riffone portante che chiama palesemente i Meshuggah, ma la porzione electro-cibernetica che popola il brano, permette al trio russo di prendere le distanze dai gods svedesi. Le convincenti growling vocals di IOFavn mi hanno ricordato invece lo stile del vocalist dei nostrani Alligator. Nel frattempo il cd non ha tempo da perdere e si lancia con "Apotheosis" in un'altra fuga roboante di ritmiche martellanti, sparate alla velocità della luce tra paurosi stop'n go e improvvise accelerazioni death. Interessante sottolineare il concept lirico che si cela dietro a 'KaliYuga Babalon', che tratta uno dei testi sacri della tradizione induista, ossia il dodicesimo canto del Śrīmad Bhāgavatam che anticipa l'avvento dell'età del Kali yuga e la futura distruzione dell'universo materiale da parte di Kalki, un discendente del dio Visnù, a causa del decadimento morale e spirituale in cui è sprofondata l'era attuale. Insomma, un messaggio alquanto tranquillizzante, eufemisticamente parlando. Detto questo, la devastazione prosegue anche con l'ipnotico preludio a "...Qliphoth", una song che tra melodie della tradizione indiana, riffoni dotati di uno spettacolare groove, la identificano come una delle mie preferite (insieme alla conclusiva, ancor più completa e "meshugghiana", "SHANGRI LA") nel lotto delle tracce qui incluse. Dopo parecchi pezzi di durata "normale" (tra i 3 e i 4 minuti), ecco un mostro di oltre 16 minuti ("Orgy - Ritual BABALON") che affida a delle sparatorie e ad urla disumane, i suoi primi due minuti. Poi, nelle sue note c'è un po' di tutto: deathcore, progressive, arrangiamenti da urlo, suoni cinematici, e un'infinita porzione di spoken words in russo che probabilmente si dilunga un po' troppo per i miei gusti. Un buon lavoro di certo, penalizzato però dall'inconcludente lungaggine di "Orgy - Ritual BABALON". (Francesco Scarci)

(Sliptrick Records - 2017)
Voto: 70

https://www.facebook.com/samadhisitaram/

giovedì 12 ottobre 2017

Worselder - Paradigms Lost

#PER CHI AMA: Heavy/Thrash, Pyogenesis
La Francia continua nella propria missione di produrre solide certezze: quest'oggi sotto con i Worselder e il loro mix heavy thrash unito alla brutalità dell'hardcore, cosi come dichiarato nel loro messaggio promozionale. In realtà nei solchi di questo 'Paradigms Lost', i riferimenti che ci sento sono molteplici. Partendo dall'opener "Infighting" infatti, non è cosi difficile percepire un sound che chiama in causa i Pyogenesis del periodo di mezzo, unito a sonorità hard rock che evocano invece i gloriosi anni '80, con dei riffoni che se stessero su un disco thrash death, nessuno avrebbe da che ridire. Insomma di carne al fuoco, avrete intuito, ce n'è parecchia e allora andiamo con ordine, visto che dopo il bell'assolo della prima song, ecco il suono di un didjeridoo a braccetto con la batteria, esordire nella title track a offrire un sound dapprima tirato e poi stracarico di groove in un'altalena inattesa di cambi di tempo, di umore e generi in un pezzo alla fine davvero convincente. Con "Seeds of Rebellion" torniamo a suoni più retrò che un po' mi fanno storcere il naso ma che in pochi secondi riescono a trovare comunque un loro perché: nell'hard rock di questa canzone ci sento addirittura un evidente e palese richiamo ai Pink Floyd di "Another Brick in the Wall". Ancora una bella ritmica granitica con "Idols" che si chiama in causa sonorità stile 'Load' dei Metallica e influenze più heavy, con la voce che si muove tra porzioni pulite, urlate in stile power, e momenti più ruvidi. Ribadisco, difficile collocare i Worselder in un genere ben definito, lo dimostra anche l'incipit "The Sickening" dove delle chitarre più graffianti trasformano la song in una sorta di semi-ballad che in pochi secondi avrà modo di regalare belle aperture melodiche colanti enormi quantitativi di suoni ruffiani che cattureranno la vostra attenzione quanto la mia, in quella che è la mia song preferita, soprattutto in un finale che ci ricorda che i nostri hanno suonato con gente del calibro di Dagoba, Gojira e compagnia cantanti. Ancora rock'n roll con "Severed", almeno nei suoi primi novanta secondi, poi i nostri si divertono a suonare un po' come diavolo gli pare, votandosi completamente all'anarchia di un suono sempre imprevedibile e con parecchio da dire, seppur siano palesi le innumerevoli influenze che arrivano da qualsiasi decennio degli ultimi 40 anni di musica. Bravi, perché non è proprio cosi facile e scontato coniugare cosi tanti generi in un flusso musicale che non vive evidenti momenti di stanca o cali di tensione. Nell'inizio di "Home of the Grave" ci sento anche gli Eagles che in pochi secondi si ritrovano a suonare death metal ed evolvono ancor più velocemente in un ibrido tra nu metal, metalcore e thrash metal. Bravi Worselder, non era facile portare a termine l'obiettivo che si erano prefissati senza cadere in tranelli pericolosi. Missione compiuta. (Francesco Scarci)

(Sliptrick Records - 2017)
Voto: 75

https://www.facebook.com/worselder

domenica 3 settembre 2017

Distant Landscape - Insights

#PER CHI AMA: Prog/Post Rock, Katatonia, Anathema, Riverside
Meglio non trovarsi in un qualche turbine emotivo prima di ascoltare il debut album dei nostrani Distant Landscape, rischiereste di venire sopraffatti dalla malinconica proposta che Marco Spiridigliozzi (mastermind della band) e i suoi compagni hanno prodotto. Io l'ho fatto e quale struggente mal di stomaco ne ho ricavato, lo sa solo il buon Dio. Già, perché dopo aver inserito 'Insights' nel mio lettore e avviato l'opener "Same Mistake", mi sono fatto trascinare da quel senso di sconforto, generato dalla perdita di una persona amata, colpa di melodie strazianti che hanno toccato con facilità le corde già sensibili della mia anima, anche se con sonorità (e vocals), che mi hanno evocato inequivocabilmente 'The Great Cold Distance' dei Katatonia, prima vera fonte di ispirazione dei nostri. Lo struggimento prosegue con le note delicate di "Cage Inside Us", una lunga traccia (oltre nove minuti) che partendo da atmosfere intimistiche, cresce pian piano di ritmo ed intensità, passando da un rock seducente ad un sound più robusto ed incazzato, sebbene mostri poi un finale più equilibrato e psichedelico. "First Insight" si apre con un arpeggio e la voce di Marco che emula con eccellenti risultati, il ben più famoso collega svedese, in una song intrisa di tristezza, soprattutto a livello lirico. Ripeto, meglio non ascoltare il disco se non siete sereni, l'effetto potrebbe essere destabilizzante, qui con la voce di una gentil donzella (Judith dei Raving Season), ad aumentare il carico di sofferenza. L'attacco roboante delle chitarre di "The Desire" lascia intendere un passato doom dei nostri, e quel riffone che chiama in causa gli Anathema periodo 'Pentecost III'/'The Silent Enigma', ne è la prova, anche se poi la tensione si allenta e torna lo spettro dei Katatonia ad aleggiare sui nostri, fatto salvo per chiudersi con una eterea spiritualità che ha smosso anche echi degli Alcest. Ancora un arpeggio in apertura per "The Change", e ancora malinconia grondante da ogni linea melodica che sia di voce o di chitarra, che mi accompagnano fino alla sesta "The Love of a Mother for Her Sons". Quest'ultima è una song che per testi e musicalità, ha scomodato un altro classico degli Anathema, "One Last Goodbye", estratto dal meraviglioso 'Judgement', riletto però in chiave più "moderna", stile 'Weather System', con tanto di voce femminile in primo piano. Al finale, ecco attendermi "Distant Landscape", l'ultima fatica in grado di dare il colpo di grazia al mio cuore già infranto e ora sedotto anche dal suo evoluto rock progressive che strizza l'occhiolino ai polacchi Riverside. Alla fine 'Insights' è un bell'album; se solo i Distant Landscape saranno in grado di acquisire maggiore personalità, scrollandosi di dosso le influenze di Anathema e soprattutto Katatonia, sono certo che sentiremo a lungo e strabene parlare di questi ragazzi. (Francesco Scarci)

(Sliptrick Records - 2017)
Voto: 75

https://www.facebook.com/distantlandscape/

domenica 12 febbraio 2017

Revenience - Daedalum

#PER CHI AMA: Power Symph
Formatisi nel 2014 dalle ceneri di precedenti band, principalmente dai Nemoralis, i bolognesi Revenience ci presentano la loro prima fatica discografica, 'Daedalum', uscita per la Sliptrick Records lo scorso anno. Forti della soave voce di Debora Ceneri e di un’inclinazione melodica, la band ci propone con naturalezza un carico symphonic metal forgiato da influenze gotiche, seguendo le fortunate orme di gruppi come i connazionali Soundstorm. Il quintetto bolognese non si fa mancare nemmeno qualche sfumatura più elettronica, che possiamo avvertire fin dall’inizio del disco, già dall’introduzione strumentale: questa, per i nostalgici come me, può richiamare alla mente i vecchi album dei Rhapsody, che si presentavano sempre con la canonica intro composta da cori ancestrali e orchestrazioni da soundtrack. Tuttavia, se allora capitava di perdersi nelle sinfonie provenienti da mondi antichi e fantastici, qua ci troviamo in una terra ben diversa e in un’epoca decisamente più attuale! “Blow Away By The Wind” è forse il pezzo più emblematico, in cui si avvertono un po’ tutte le caratteristiche principali dei Revenience: sound potente a sostegno delle vocals della Ceneri, che qui si destreggia in modo impeccabile, sfoderando la sua padronanza delle corde più alte e alternandosi nel chorus alle growl-vocals del batterista Simone Spolzino. Le tastiere lavorano a tempo pieno, con le onnipresenti orchestrazioni d’archi e gli stacchi “electro” arricchiti da una sovrapposizione di fluttuanti pad. La lenta ballad piano-voice “Lone Island”, molto ben congegnata musicalmente e con vocals ancora vincenti, è seguita dall’irruenta "A-Maze", che racchiude il lato più potente e cattivo dell’ensemble bolognese, ma in cui non può comunque mancare uno stacco di richiamo fortemente melodico (bel lavoro la parte pianistica sul finale!). La traccia conclusiva dell’album, “Shadows and Silence”, dalla struttura leggermente più articolata, rappresenta una degna chiusura per un esordio altrettanto degnamente riuscito: la doppia cassa a sostenere i ritornelli, l’assolo ‘catchy’ di chitarra nella parte centrale, l’ottimo lavoro dietro le tastiere di Pasquale Barile e poi una scordata melodia in fade, lasciano l’atmosfera sospesa in un misterioso sospiro. Possiamo con piacere definire questo 'Daedalum' un debutto discografico decisamente azzeccato da parte della band bolognese che, pur senza introdurre particolari novità, riescono a proporsi con un certo stile, senza annoiare: una piacevole sorpresa nostrana nel campo power/sinfonico, come furono qualche tempo fa anche i Sailing To Nowhere. Speriamo dunque di stupirci ancora! (Emanuel 'Norum' Marchesoni)

(Sliptrick Records - 2016)
Voto: 80

https://www.facebook.com/Revenience/

giovedì 12 gennaio 2017

Angelseed - Crimson Dyed Abyss

#FOR FANS OF: Power Symphonic Metal, Dragonland, Kaledon, Ancient Bards
Croatian symphonic power metal newcomers AngelSeed have struggled with numerous lineup changes over the years as the band’s complex arrangements and vast array of influences have kept the band in check throughout the years. Forging forward with these elements, the band is quite adept at their style here which manages to interject so many rather strong and dynamic elements that range from operatic vocals, soaring cinematic orchestrations that generate the kind of power and bombastic grandiosity present there to heavy, thumping riffing alongside the straightforward riffing which is quite a great backbone of attack which generates quite a lot to like here. The fact that it’s not as intense and driving as the vast majority of the genre’s practitioners for the full-on album as they prefer to stay in the mid-tempo chugging realm and offer complex arrangements rather than indulge in those overt speed-drenched numbers might make this a somewhat clashing tone for some but otherwise isn’t all that flawed since the consistency and tone makes up a lot of that. The three ballads might be overkill, but the tracks are still enjoyable enough. First effort ‘Bloodfield’ gets this going with moody atmospherics and pounding drumming that propels this along at a steady pace as the operatic elements coming to pass throughout the swirling keyboards leading into the finale for a decent-enough start. ‘Dancing with the Ghosts’ offers heavy, thumping rhythms and harmonious leads that bring about the controlled Gothic-flavored outbursts while chugging along to the strong rhythms as the mid-tempo patterns keep this one flowing nicely into the final half for another strong offering. Their first ballad ‘Man with Black Roses’ drops off into softer rhythms with a more relaxed tempo that still retains some solid atmospheric keyboards amid the simple strumming and romantic vibe that runs continuously throughout here for a rather nice attempt at the style without really doing much else. ‘Forever Blind’ returns to the forefront of heavy, chugging patterns and utterly frenzied patterns that blast along at more traditional speed-drenched rhythms and bombastic drumming throughout the finale that makes for a standout highlight track. Second ballad ‘Leaving All Behind’ offers even softer and more romantic patterns with simplistic elements and orchestral patterns that brings the keyboards to the forefront against the guitars as the gentle rhythms continue on for a much more engaging and up-tempo effort than the previous effort. ‘Fallen Angel’ and ‘Schizo-head’ tread into the cinematic realm with surging keyboards and simple mid-tempo riffing that relies more on dramatic arrangements as the pounding rhythms and harmonious cinematic melodies make for fun and rather engaging efforts. ‘Dreamer / Breaking Dawn’ mixes the ballad and mid-tempo crunch styles nicely with soft, gentle melodies and dramatic arrangements that contain romantic rhythms alongside the bombastic keyboards which is nice but does feel way too dragged out at it’s current length. ‘Soulcollector’ brings some electronic influences into the dramatic cinematic rhythms and pounding arrangements as the crushing riff-work and swirling keyboards combine into a fine operatic whole for a rather enjoyable offering. ‘The Healer’ offers the heaviest variation yet with the faster rhythms and thumping patterns offering plenty of cinematic-styled outbursts alongside the softer, gentle melodies and simple keyboards only with a lessened impact against the driving orchestral rhythms for a rather enjoyable offering. Finally, the final ballad and album-closer ‘Now’ uses the soft strumming and gentle melodies for a romantic guide through the solid rhythms and engaging vocal melodies that carries on into the final half for a solid if completely inappropriate lasting impression that drops this a notch. Otherwise, this here is a solid addition to the genre overall. (Don Anelli)

(Sliptrick Records - 2015)
Score: 75

http://www.angelseed.info/

mercoledì 7 dicembre 2016

Reveries End – Edge of Dark Waters

#PER CHI AMA: Gothic, Theatre of Tragedy, 3rd and the Mortal
Erano anni che non mi trovavo di fronte ad un album così intenso, probabilmente dai tempi d'oro del gothic metal di classe, quello dei 3rd and the Mortal, dei Theatre of tragedy e dei The Gathering, quelli della prima era, l'epoca divina di un genere glorioso, romantico e oscuro, unico, trascendentale, drammatico e pieno di richiami classici e malinconici. Tutto questo si riflette in questo magnifico lavoro, uscito per Sliptrick Records in questo ricco 2016, in un'epoca moderna dove lo stesso genere è stato bistrattato, rigirato e triturato in mille maniere, reso quasi ridicolo e al limite del pop da un'infinità di pseudo band. È uscito a febbraio quest'impressionante full length intitolato 'Edge of Dark Waters', opera prima della giovane band finlandese Reveries End, ensemble nato nel 2011, che si palesa con tratti marcatamente nordico e nobile seguace dei gods sopra citati. La proposta pur non offrendo nulla di nuovo, si mostra di grande classe grazie a composizioni eccellenti, con un groove che rispolvera i sentimenti dei grandi maestri, con capacità e gusto, senza mai scadere nella mera banalità, tanto meno nel plagio. Originale quanto basta, il quintetto di Tampere si conferma assai deciso nel proporre un metal gotico, forte di un equilibrio perfetto tra melodia e aggressività, sciorinando mid-tempo ad effetto e sopra ogni cosa la voce di Sariina Tani che governa e spadroneggia per la raffinata bellezza di un canto fatato dalle potenzialità incredibili. La band si esprime in grande stile e sfodera otto brani da sogno, suonati, cantati e vissuti alla maniera di 'Nighttime Birds', 'Tears Laid in Earth' o 'Aègis', album insuperabili, proponendo idee affini ma rivisitate con innesti di nuova vitalità ed inaspettata profondità. Prendete il brano di chiusura ad esempio che porta il nome della band e lasciatevi andare nell'oblio dell'infinito. Un album costruito con perizia e conoscenza, garantendo una musica sentita e suonata con l'anima, cosa che alla fine fa la differenza. Seguite il brano iniziale "A Thousand Facets", che apre fin dalla prima nota ad un mondo incantato e malinconico. Continuate il vostro viaggio nelle lande di ghiaccio con "Descent" o "Hamartia" e adorerete questo disco illuminato dalla luce notturna e dal suo incedere triste. Brani dove sottolineerei una voce angelica ai confini della realtà, senza dimenticare le violente backing vocals ad effetto del chitarrista Veli-Matti Olkinuora e i virtuosismi degli altri membri della band che, accompagnati da un'ottima produzione, danno vita a questa meraviglia d'altri tempi. Un album da respirare a pieni polmoni, decisamente da inserire tra le migliori uscite underground del 2016. Da avere assolutamente! (Bob Stoner)

(Sliptrick Records - 2016)
Voto: 85

https://www.facebook.com/reveriesend/

domenica 20 novembre 2016

The Burning Dogma - No Shores of Hope

#PER CHI AMA: Death/Black/Gothic/Dark
Il classico digipack, la classica cover cupa. Un'altra goccia nell'infinito mondo dell'estremo. Invece no. I bolognesi The Burning Dogma ritornano dopo l'interessante 'Cold Shade Burning' del 2012, con molte idee, tante idee (pure troppe). Prima di ascoltarli sono andato a guardarmi la pagina FB, per farmi un'idea più approfondita di loro. Dal vivo usano scenografie, un face painting non esagerato e moderno, che potrebbe ricordare quello dei Fleshgod Apocalypse. Schiarite le idee, mi sono tuffato in questo lavoro con curiosità, e dopo svariati ascolti in situazioni e momenti diversi, mi sono reso conto che questi ragazzi sanno suonare molto bene, la tecnica non manca di sicuro, ed è frutto di anni di calli alle mani e sofferenza. Quello che latita fortemente è tuttavia un'idea di base, su come e dove dirottare tutte queste idee e capacità. In 'No Shores of Hope', album edito dalla onnipresente Sliptrick Records, si possono ascoltare riff "carcassiani" (di cui vado matto), ma un attimo dopo, il tutto si trasforma in passaggi black/gothic o sfuriate brutal in blast beat, fuoriescono voci femminili, voci maschili pulite, in screaming e growl, il tutto non troppo ben amalgamato. L'ascolto di quest'album di 50 minuti, diventa pertanto molto impegnativo e incline ad una certa facilità a distrarsi dal suo ascolto. Ci sono ben cinque tracce strumentali (13 in tutto) e vari intermezzi all'interno dei pezzi che mi hanno lasciato un po' perplesso, passaggi trance elettronici, che fanno tirare il fiato per un attimo, in attesa di ricominciare il tutto con un altro profilo stilistico, insomma un bel "popò di roba". Tutto ciò non favorisce un mio positivissimo giudizio all'album, anche se forse in una situazione live, potrebbe creare grande effetto, visto l'uso teatrale che usano spesso i nostri. La registrazione è buona e professionale ma non mi ha dato grande soddisfazione a livello del mixing: ci troviamo infatti una batteria costantemente in primo piano, qualunque sia il tipo di passaggio la canzone stia affrontando. E questo ahimè copre spesso lo splendido lavoro che fanno i chitarristi, che non si risparmiano di certo nel tessere riff rabbiosi e arrangiamenti molto curati. Le canzoni non sono assolutamente da buttare, sia chiaro, canzoni del calibro della title track e la seconda parte di "Dawn Yet to Come", sono le parti migliori di questo album. Sarei curioso di vederli dal vivo e farmi un'idea migliore di quello che vogliono rappresentare, felicissimo di farmi smentire. (Zekimmortal)

(Sliptrick Records - 2016)
Voto: 65

sabato 12 novembre 2016

Ascent - Don't Stop When You Walk Through The Hell

#PER CHI AMA: Thrash/Death, Lamb of God
Una volta c'era Angela Gossow che con i suoi Arch Enemy sbraitava come un'indemoniata al microfono, senza alcun timore reverenziale nei confronti del cantato gutturale dei migliori vocalist death metal del mondo. Angela ha fatto scuola e sempre più spesso ormai si vedono band i cui frontman (ma sarebbe meglio dire frontwoman), sono in realtà cazzutissime donne che si dilettano con un growling da cavernicolo. Gli ultimi scovati sono i siberiani Ascent, che rilasciano per la Sliptrick Records, quest'album dal titolo meraviglioso, 'Don't Stop When You Walk Through The Hell', e che propongono appunto come punto di forza, le killer vocals di Anna Dizendorf. La musica poi non è proprio quanto di più originale ci sia in giro, offrendo infatti un concentrato dinamitardo quanto basico di sparatissimi riff thrash-death metal che non mostrano alcun pietà, scagliandosi contro l'ascoltatore come la più funesta delle intemperie. Aspettatevi quindi ritmiche abrasive ("Useless"), un approccio vocale borderline tra il death e un più arcigno hardcore, taglienti assoli (ottimo quello in "Dead Silence" e ancora "Useless"), qualche atmosfera un po' più lugubre e ritmata ("Matter" e "The Punisher") e poco altro, relegando questo breve dischetto (28 minuti) ahimé ai soli amanti di sonorità estreme. (Francesco Scarci)

(Sliptrick Records - 2016)
Voto: 60

mercoledì 9 novembre 2016

Shantak - For the Darkening

#PER CHI AMA: Melo Death, In Flames
Ancora Italia, ancora Sliptrick Records, ancora metal estremo, questa volta con i metallers bresciani Shantak. Dalla cover cd cosi cupa, avrei pensato ad incandescenze black metal, in realtà la proposta del quintetto lombardo guarda alla Svezia, con un sound che chiama in causa un che degli In Flames degli esordi, soprattutto nell'utilizzo di quelle parti acustiche ("The Disinterment") che resero celebri i primi album della band di Anders Fridén e compagnia. Chiaramente, c'è da soppesare le mie parole perché i cinque ragazzi, al debutto con questo 'For the Darkening', sono lontani anni luce dai tanto chiacchierati gods svedesi. Gli ingredienti però per piacere ai fan ci sono tutti: dai succitati arpeggi (penso all'opening dell'oscura "Silent Birches"), alle linee di chitarra assai melodiche e dal piglio marcatamente heavy metal, soprattutto a livello di assoli ("Germination"), passando alle convincenti growling vocals per finire ad un'atmosfera di fondo tenebrosa, in un album che non ha grosse velleità se non quella di presentare con umiltà la propria proposta ad un pubblico più vasto, con la consapevolezza (auspico) di non aver inventato di certo l'acqua calda. Mi piace il taglio tribale a livello ritmico di "Oath of Shadows", song dall'incedere epico che contribuisce a rivelare ulteriori potenzialità della band. La durata non eccessiva dei brani contribuisce a fornire un approccio più easy-listening agli Shantak cosi come le linee di chitarra, non particolarmente pesanti ("Drowned Tears"), rendono il tutto molto più assimilabile. Di strada ce n'è da fare comunque parecchia se ci si vuole scrollare di dosso i facili accostamenti con gli In Flames o altre mille band affini. I dieci brani, dotati comunque di una certa professionalità, finiscono però in un calderone dal quale sarà difficile alla fine ricordarsi qualcosa, in quanto difettano ancora in personalità, che rappresenta il vero limite di questo primo disco targato Shantak. (Francesco Scarci)

(Sliptrick Records - 2016)
Voto: 60

https://www.facebook.com/ShantakBandOfficial/

martedì 8 novembre 2016

Project Silence - Slave To The Machine

#PER CHI AMA: Industrial Black metal
Boh. Da un gruppo titolato come uno dei migliori episodi industrial finlandesi e con un disco dal titolo altisonante come 'Slave To The Machine', mi aspettavo di più. È un lavoro fortemente concentrato sulle chitarre e sulla voce quello del quintetto di Kuopio; l’elettronica, quando c’è, è nascosta, sullo sfondo, appena accennata e il più delle volte si avvale di suoni poco convincenti che sembrano usciti dai peggiori anni ’80 (“Abyss”, “Desperation”). La batteria è veloce, precisa, e svolge un ottimo lavoro di grancassa con interessanti accelerazioni, ma certamente non brilla di invenzione. Le chitarre sono fangose e vagamente retrò nella loro distorsione, ma decisamente scandinave nel riffing – senza però l’originalità della maggior parte dei colleghi nordeuropei. Ci sono episodi interessanti intendiamoci, e giusto un paio di passaggi davvero indovinati (“Circus Of Seven”, “The Era Of Fear” o la conclusiva “Invasion”). Ma si sente fortemente la mancanza dell’elettronica; ed è quasi peggio quando i synth vengono usati per le solite, banali introduzioni (“Titan”), per poi sparire completamente dopo pochi secondi. Su tutto questo, la voce del cantante e fondatore Delacroix, svolge un lavoro più che egregio, per gli appassionati del genere: brutale e gorgogliante per la maggior parte del tempo, assolutamente black nel suo screaming arcigno. Peccato che 'Slave To The Machine' duri quasi un’ora e strappi più di qualche sbadiglio già da metà tracklist in poi, quando tutto sembra diventare un manierismo masturbatorio un po’ troppo uguale a se stesso. Un disco lungo, tutt’altro che contemporaneo nelle scelte sonore e ben distante dall’industrial moderno. Solo per appassionati. (Stefano Torregrossa)

(Sliptrick Records - 2016)
Voto: 55

https://www.facebook.com/projectsilenceband/

sabato 5 novembre 2016

Banned from Hell - Fall of Humanity

#PER CHI AMA: Melo Death, Children of Bodom, Edenshade
"Buttati fuori dall'Inferno": fortunati questi metallers fiorentini che con 'Fall of Humanity' arrivano finalmente all'album d'esordio, dopo un EP ormai datato 2012. Le dieci canzoni contenute in questo platter, rilasciato dalla Sliptrick Records, hanno un che di affascinante, anche se ci sono ancora diverse cose da sistemare, ma andiamo pure con ordine. Partiamo innanzitutto identificando il genere che propongono i nostri e la cosa non è tra le più semplici da fare. Se si parte infatti da un approccio prettamente death thrash ("You are My Blood") con echi addirittura degli Alligator nel riffing torrenziale e destrutturato delle due asce, ciò che colpisce è il lavoro alle tastiere che provano a rendere il disco decisamente più vario e dinamico, a tratti orchestrale, facendo propendere l'ensemble toscano per una versione death metal dei Cradle of Filth. Le keys tuttavia fanno il buono e il cattivo tempo con una performance altalenante che mi ha lasciato un po' perplesso: mi convincono infatti nella fase di arrangiamento, molto meno quando vogliono prendersi la scena con assoli barocchi, dal suono retrò, quasi in stile pianola Bontempi. Il sound del sestetto toscano va giù bello diretto con ritmiche pesanti o altre più tese ("Hate"), che ovviamente non offrono nulla di originale, fatto salvo in quei frangenti in cui compaiono appunto parti più atmosferiche, quasi vampiresche ("Bleeding Digital") che rendono l'album più fruibile da un pubblico più vasto che non necessariamente deve essere quello estremo. Visto il virtuosismo proposto dalla sezione solistica (su alcune soluzioni però avrei un po' da discutere), aprirei spiragli anche per i defenders o per gli amanti del progressive più open mind. Le vocals ricordano per certi versi quelle dei già citati Alligator, muovendosi tra un growling comprendibilissimo e altre parti più urlate. "Nightmare" suona come dei Children of Bodom in salsa deathcore con pesanti atmosfere goticheggianti che ammiccano nuovamente a Dani Filth e soci, con le consuete tastiere che chiamano in causa anche i nostrani Edenshade, in un calderone non troppo omogeneo di musica pseudo estrema. Altre citazioni le meritano la psicotica "Murder Validation" o la più sperimentale "Amigdala", che garantisce ancor più spazio ai synth. 'Fall of Humanity' alla fine è un album che gode di una certa aura misterica ma che nell'esuberanza dei suoi membri, rischia di uscirne quasi penalizzato. Io fossi in questi ragazzi, dotati di indubbie qualità tecniche, metterei più a fuoco la proposta, evitando di voler strafare, affidandosi a suoni un po' più moderni e meno pirotecnici. La strada comunque è quella giusta. (Francesco Scarci)

(Sliptrick Records - 2016)
Voto: 65

venerdì 21 ottobre 2016

Seventh - The Herald

#PER CHI AMA: Post Metal/Sludge, Neurosis
Sette sono i colori dell'arcobaleno, sette sono i giorni della settimana; sette sono i colli di Roma e sette sono i mari secondo gli antichi Greci. Ancora, sette sono i peccati capitali e sette sono le virtù, sette è tante cose, il numero simbolo per eccellenza della ricerca, che rappresenta ogni forma di scoperta e conoscenza. Con il numero sette si va poi all’esplorazione delle parti più intrinseche dell’esistenza fino ad arrivare alla scoperta del suo significato più profondo. Questo preambolo per introdurvi i Seventh (settimo), il nome della band veneziana che ci regala questo 'The Herald', un concept album contenente (ovviamente) sette pezzi che ci conducono in un viaggio cosciente della mente e dell'anima. E il disco è concepito come un viaggio allegorico di un uomo comune che sostiene la libertà e nega la religione e le restrizioni culturali di ogni genere, una storia dai contenuti assai interessanti. Cosa di meglio allora di una perfetta colonna sonora per accompagnare questo intrigante racconto? Detto fatto, i Seventh ci regalano quasi tre quarti d'ora di musica che si muove negli anfratti più oscuri del post metal, con sette piccole gemme, di cui vi citerei immediatamente le mie preferite: la opening track, "The Apostate", che dischiude l'irruenza, la morbosa schizofrenia e l'imprevedibilità di questo trio, in una traccia che, se fosse stata scritta dai Neurosis, avremmo gridato al miracolo. "The Desert" ha un incipit più marziale e un'andatura successivamente più ipnotica, calda, addirittura anthemica. Un break centrale ne spezza l'incedere ritmato e lo screaming caustico di Maximilian si tramuta per alcuni istanti in un cantato pulito e rassicurante, in una traccia comunque dal forte sapore sperimentale, che troverà la sua naturale continuazione in un'altra apparentemente più delicata, la successiva "The Tower", in grado di regalare una prima metà decisamente soft a cui fa da contraltare una seconda parte più feroce. Contorta non poco invece "The Exile", forse la song più complessa del lotto, in cui rabbia, melodia, malinconia, ambient, post metal, alternative, progressive (e tanto altro) convivono beatamente in un flusso magmatico che talvolta appare liquefatto e in altri casi si rivela duro come la roccia. "The Monarch" è un altro esempio di sonorità intimiste, complice nuovamente l'uso di vocalizzi puliti inseriti in un contesto musicale rilassato, almeno per una manciata di minuti, prima che la traccia muti forma e natura, volgendosi verso un riffing di matrice statunitense che chiama nuovamente in causa i paladini Isis e Neurosis, con le vocals che qui si palesano verso uno stile più votato all'hardcore. "The Dawn" ha un piglio decisamente ambient, per quel cantato quasi litanico del frontman e per una traccia che va insinuandosi nei meandri del noise/drone. "The Throne" è l'ultimo pezzo, un'ultima rivisitazione da parte dei Seventh, del post metal americano qui intrisa da pesanti atmosfere doomish. A proposito, che sbadato, dovevo menzionarvi solo i miei brani preferiti e alla fine li ho descritti tutti, forse perché realmente sono meritevoli di un approfondito ascolto. (Francesco Scarci)

(Sliptrick Records - 2016)
Voto: 80

https://seventhofficial.bandcamp.com/releases

sabato 3 settembre 2016

Bear Bone Company - S/t

#PER CHI AMA: Hard Rock, Black Label Society
I Bear Bone Company (BBC) sono un power trio svedese formatosi quattro anni fa e solo l'anno scorso si sono lanciati nel vasto mondo discografico con questo Self titled album. I tre ragazzotti non hanno più vent'anni e la loro maturità musicale si sente tutta, un concentrato di rock duro e crudo, sanguigno e immediato, come si faceva un tempo. Le dodici tracce sono ben bilanciate, arrangiate con cura e potenti come ci si aspetta da questo genere, basti ascoltare la opening track "Fade". È una cavalcata veloce e cadenzata, con riff classici che ci portano indietro di quindici-vent'anni e fanno l'occhiolino ai Black Label Society e company. Il vocalist si fa notare sin da subito per la sua ottima estensione vocale, lanciandosi in acuti che farebbero impallidire una vocalist femminile. Alcune influenze grunge portano a galla i gusti retrò della band, come in "Kiss N Tell" che sulla falsariga degli Alice in Chains o STP, si sviluppa in aree più heavy. Il chitarrista (nonché cantante) mette in piazza i suoi studi, con accelerazioni e rallentamenti, il tutto condito da un bell'assolo che scalda le corde fino a farle divenire incandescenti. La band si cimenta anche in brani più lenti, "Down in Flames", trovandosi a proprio agio, anche se gli arrangiamenti avrebbero voluto qualcosa di meno scontato. Per fortuna l'enseble di Örebro non hanno voluto opprimerci con la solita ballata che spesso le band includono per accontentare tutti, quindi rendiamo grazie al trio svedese. Traccia dopo traccia, tutto scorre fluido, forse troppo, nel senso che nonostante il livello generale sia più che buono, si rischia di cadere in uno stato catatonico per una certa mancanza di stimoli. Questo rischio aumenta se non amate il genere, oppure se lo avete lasciato da parte da un po'. L'esordio dei BBC è buono ed essendo una band matura non aspettiamoci evoluzioni particolari, ma facciamo tesoro del buon rock che questo trio scandinavo può regalare ora ed in futuro. (Michele Montanari)

(Sliptrick Records - 2015)
Voto: 65

lunedì 11 luglio 2016

Vita Museum – Frozen Limbo Zero

#PER CHI AMA: Alternative/Electro Rock/Gothic/Indie
Con un artwork sinistro e alquanto gotico, si presenta egregiamente al pubblico questo quartetto italo-britannico di base a Londra che, formatosi nel recente 2014, senza perdere tanto tempo e cavalcando l'onda della creatività più immediata, nel 2015 ha fatto uscire il suo primo lavoro, distribuito dalla visionaria Sliptrick Records. Stravagante e contraddittorio sono i due termini che potrebbero definire questo 'Frozen Limbo Zero' a cui aggiungerei anche astuto e coraggioso. In realtà la band sa perfettamente dove andare con la propria arte anche se lo fa in tutte le direzioni musicali possibili, pur di farsi notare. Diciamo che al primo ascolto, si rimane leggermente disorientati dal sound del quartetto che non si riesce bene a mettere a fuoco, inquadrandolo in un genere ben definito. Fin da subito però, si ha l'idea di aver a che fare con una musica ricercata, piena di ambiguità e assai creativa. Non è un tabù per questa band parlare di glam rock moderno, in sintonia con i migliori Sixx:A.M., con quel sound carico di pop ma pur sempre legato all'hard rock tossico e malato quanto lo poteva essere Marilyn Manson ai tempi di "Sweet Dreams", irradiato dal nu metal tecnologico dei Linkin Park, da soluzioni elettroniche di certe frange più morbide dell'EBM e del rock trendy dei 30 Seconds to Mars. Un mix di generi rivisitati da un'angolatura spigolosa e alternativa come lo è ad esempio la musica dance punk dei Death From Above 1979. "Somebody to Destroy" è il singolo perfetto corroborato da un video immerso in un'ambigua oscurità che inganna e attrae la vista dell'ascoltatore, una musica pop dal ritornello rock carico di groove che ammicca alla gettonata "Souljacker" degli Eels ma che potrebbe essere un brano dei T-Rex passato tra gli acidi dei Primal Scream di 'Riot City Blues' o tra il rock elettronico dei Manic Street Preachers di 'Futurology'. Il brano "Alive" macina i contesti musicali dei Paradise Lost, epoca 'One Second', in una veste elettro wave alla IAMX, scatenando la mia incomprensione, ma facendosi comunque apprezzare per il gusto e le qualità non superficiali con cui la band si dedica a brani radiofonici, creando delle vere hit da classifica. "Leave Me" delizia con ricordi semiacustici del rock da incubo del buon vecchio Manson, cosi come la seguente "Never Be the Same", anche se qui manca il peso della sua perversione e i Vita Museum finiscono per assomigliare a degli Stone Temple Pilots ultimo periodo, filtrati da un effetto pregevole stile radiolina anni sessanta, quello della partita della domenica pomeriggio per intenderci. Da qui il sound si fa sempre più sintetico e la rarefatta malinconia di "Alone", introduce la triste cadenza alternativa di "Another Time, Another You". A cavallo tra svariati generi e sfacciatamente senza remore verso i puristi del rock, i Vita Museum sfoderano dodici brani tutti da cantare a squarciagola, contribuendo alla contaminazione del rock a tutto tondo. Incuranti delle etichette e apertamente predisposti allo star system più scandaloso e glamour, i Vita Museum scardinano i canoni del classic rock e del metal, abbracciando indie ed elettronica di varia natura, addirittura il pop nella sua forma migliore, dando vita ad un album intelligente e motivato, anticonformista (non certo innovativo) ma sicuramente personale e curato. Da ascoltare e gustare a più non posso. (Bob Stoner)

martedì 5 luglio 2016

Funeral Mantra - Afterglow

#PER CHI AMA: Stoner Rock, Black Label Society, Spiritual Beggars
Alla fine del 2015 è uscito per la Sliptrick Records il primo lavoro su lunga distanza di questa heavy stoner band romana, i Funeral Mantra. L'album è molto lungo, supera i cinquanta minuti per un totale di dieci brani assai ragionati e fatti su misura per piacere ai tanti ammiratori del genere. La timbrica possente del vocalist Dude caratterizza non poco l'incedere dei brani, donando quel tocco necessario per avvicinarli ai maestri Spiritual Beggars, mentre lo stile più vintage a livello solistico e in certi riff di chitarra fanno scivolare inevitabilmente il sound verso le oscure terre dei gloriosi Candlemass. I Funeral Mantra si fanno notare per la classica devozione al Black Sabbath sound, qui più epico e per le escursioni in territorio Orange Goblin, sia per la potenza che per i giochi magnetici di alcune parti psichedeliche. Effettivamente il confine tra stoner ed heavy metal molto spesso si confonde nelle composizioni dei Funeral Mantra, che già dal nome e dall'artwork di copertina, tra l'altro molto bello, lasciano trasparire una doppia personalità insita nella loro musica. Provate ad ascoltare attentamente l'iniziale "Dimensions Onward" o la quarta "Brainlost" e troverete rimandi abrasivi che avvicinano la band capitolina anche alla particolare forma death metal dei mitici Gorefest. 'Afterglow' sebbene la durata decisamente impegnativa, si fa ascoltare volentieri perchè gioca su di un turbine di riff e una manciata di cantati veramente godibili e di sicura presa, prova che il gruppo romano, pur mantenendo un suono robusto, compatto e molto hard, non rinuncia, con motivata ragione, a costruire brani ascoltabili e memorabili, carichi di forza e che si possono ricordare, vedi "Gravestone Reveries" con il passo e le aperture da grande classico del rock. Forza, tecnica ed energia mescolate con sapiente intuizione per ottenere il giusto impatto granitico, fatto di rock pesante e acciaio, tra Black Label Society e Grand Magus ma anche tanta ammirazione verso la band di Michael Amott & soci e le sue gesta più progressive e complicate. Nel brano "In This Eyes", il quintetto italico diventa addirittura macabro, rallentando la velocità e adottando un'esecuzione al limite del doom, esasperando poi il proprio sound nella seguente omonima "Funeral Mantra", per poi scatenarsi in un monolitico anthem sludge come il brano "Parsec". Registrato e mixato egregiamente da Luciano Chessa al Moon Voice studio de L'Aquila, l'intero disco gode di un'ispirazione particolare e radiosa, messa in risalto da una produzione più che buona, da una scelta di suoni avvincente e da un'esecuzione dei brani ottima, fatta da musicisti navigati ed esperti. Sludge, heavy stoner, metal, prog rock, di tutto un po' in un disco di potente retro rock da far invidia a tanti se non a tutti, un lavoro raffinato e pregno di qualità, un macigno sonoro da ascoltare a tutto volume! Grande sorpresa! (Bob Stoner)

(Sliptrick Records - 2015)
Voto: 85

https://funeral-mantra.bandcamp.com/album/afterglow

lunedì 13 giugno 2016

Wastage - Slave to the System

#FOR FANS OF: Thrashcore/Metalcore, Machine Head, Biohazard
One of the longest-running acts in the Slovak underground, Thrashcore/Hardcore group Wastage are just barely now getting to their full-length debut and it’s quite an enjoyable mesh of their styles. Taking the stuttering rhythms and rather heavy propensity for breakdowns that fuel most Hardcore bands with a more rousing Thrash Metal aesthetic when it comes to the straightforward rhythms and paces which is certainly an enticing enough mixture on paper. Offering a mostly mid-tempo chugging charge with an occasional faster charge alongside those other harder-hitting breakdowns featured together here keeps the material nicely enjoyable despite the fact that way too much of the album comes off as rather one-dimensional with the majority played way too much in a straight way. There’s little deviation to be found here and it really seems a little sluggish in the mid-section where it blends together throughout here. In the finale it gets a little better with some stronger tracks but the middle is where it holds this down somewhat. There’s some pretty enjoyable work here. Intro ‘Away From The Darkness’ immediately blasts through a thumping series of mid-tempo hardcore-styled rhythms and tight patterns holding the stilted rhythms along through the stellar series of thumping and pounding drumming as the chugging breakdowns continue on through the charging final half for a fine opener. The title track offers a rumbling bass-line and a thumping series of tightly-wound and charging churning riffing into a steady, breakdown-laden patterns leading into the brief solo section and on into the final half for a solid and enjoyable effort. ‘Game’ features throbbing rhythms and clanking patterns that stuttering along through a plodding, low-key pace with tight patterns swirling along throughout the thumping series of patterns leading along into the plodding finale for an overall disappointing and disposable effort. ‘No Way Out’ utilizes immediate thumping rhythms and hard-hitting patterns thumping along to the charging and hard-hitting pounding breakdowns along throughout the thrashing rhythms charging along to the twisting rhythms found throughout the final half for a solid enough effort. ‘Ham-let’ features swirling thrash rhythms and chugging mid-tempo paces with plenty of thumping breakdowns holding the tight, straightforward chugging patterns in a steady pace with a steady solo section and breakdowns flowing into the finale for a much more enjoyable track. ‘You Can’t Stop’ uses thumping mid-tempo series of charging breakdowns with quicker thrashing patterns with the harder drumming keeping the stylish, stuttering chugging riff-work bringing the blasting rhythms along through the final half for a solid, enjoyable highlight. ‘Right Now’ takes harder thrashing rhythms with soaring leads and thumping drumming along through the steady, mid-tempo pace with the full-on stuttering riffing leading through the solo section and leading through the chugging finale for another rousing highlight. ‘I Walk Alone’ utilizes thumping mid-tempo grooves with plenty of charging riff-work through a hard-hitting series of chugging riffing that brings the stuttering paces along through the steady swirling breakdowns with the steady thumping patterns holding on through the final half for a solid enough effort. ‘Nobody’ features a series of hard-hitting thumping rhythms and steady breakdown-laden chugging that moves through a steady series of swirling thrashing riff-work and pounding drumming that continually moves through the strong patterns leading into the finale for another strong highlight. ‘Let Me Go’ takes immediate thrashing patterns and plenty of stylish swirling riffing with plenty of steady thrashing alongside the few minor breakdowns chugging along to the steady, straightforward thrashing patterns holding on through the solo section and on through the blistering final af for another strong effort. Lastly, album-closer ‘Confidence’ takes intense rattling thrashing riffing and pounding drumming through a steady, intense series of up-tempo charging patterns that whip along into a steady series of swirling patterns full of hard-hitting leads and coming along into the utterly blistering finale for the album’s best track to really end this on a high-note. It doesn’t have enough wrong overall to really hurt it much at all. (Don Anelli)