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lunedì 10 giugno 2019

Satori Junk - The Golden Dwarf

#PER CHI AMA: Doom/Stoner, Electric Wizard, primi Black Sabbath, Cathedral
Uscito originariamente nel 2017, ristampato nel 2018 e finalmente recensito nel 2019, compare sulle pagine del Pozzo dei Dannati, la recensione di 'The Golden Dwarf', opera seconda dei milanesi Satori Junk. Un disco di sette tracce (di cui l'ultima è la cover dei The Doors "Light My Fire") che confermano quanto già precedentemente apprezzato nel debut album dei nostri. La proposta del quartetto italico ci porta dalle parti di uno stoner blues rock doom di stampo settantiano che ammicca per forza di cose, agli Electric Wizard, ma che prova in un qualche modo ad offrire anche una propria originalità, frutto della cospicua personalità in seno alla band, intuibile peraltro già dalla coloratissima cover del disco. Quindi non stupitevi, ascoltando "All Gods Die" di rimanere impressionati di fronte alla bravura dei quattro sapienti musicisti lombardi nello sciorinare un muro di chitarre ultra stratificato. Non sono certo degli sprovveduti e la musica imbastita ne è certamente testimone, soprattutto nella fumosa "Cosmic Prison", in cui si scomodano facilissimi paragoni con i primi Black Sabbath, vera fonte d'ispirazione dei nostri, in compagnia di Cathedral ma anche dei Baroness, due realtà che già comunque traevano ispirazione dai maestri di sempre. La componente synth-effettistica impreziosisce di molto la proposta dei Satori Junk, e li avvicina per certi versi agli psych stoner veronesi Kayleth. Per ciò che concerne i vocalizzi poi, siamo dalle parti di una voce pulita, un po' effettata ma certamente convincente. Andiamo avanti nell'ascolto e per godere del roboante rifferama della brevissima, si fa per dire, “Blood Red Shine”: oltre cinque minuti, un lampo se confrontata con la successiva "Death Dog", dove sono invece più di quindici giri di lancette a dettare legge, in una melmosa sezione ritmica formata da basso e chitarra, due primizie, soprattutto la sei corde e le sue mirabolanti aperture solistiche, da applausi. La voce invece rimane un po' più nelle retrovie, concedendo maggior spazio all'apporto strumentale dei nostri, in cui a mettersi in evidenza c'è ancora un ispiratissimo synth. Tra lugubri rallentamenti, parti robuste più ritmate ed altre decisamente più atmosferiche, un finale ambientale, i quindici minuti sembrano scivolare anche abbastanza velocemente andandosi a collegare direttamente con la song che dà il titolo all'album per un altro sfiancante giro di dieci minuti secchi, in una traccia dal chiaro sapore sabbattiano, quello del primissimo Ozzy per intenderci. L'incedere è dapprima lentissimo, affidato alla voce del frontman, alle keys e ad un drumming ossessivo, poi ecco a subentrare chitarra e basso, in un pezzo ammorbante, ansiogeno e orrorifico. E passiamo alla cover dei The Doors, ultimo atto del cd: che dire, se non che sia praticamente irriconoscibile. Nemmeno nell'introduttivo giro di chitarra si riesce a riconoscere la famosissima melodia di Jim Morrison e soci; direi che l'unico punto di contatto con l'originale rimane il chorus centrale, visto che la voce di Luke Von Fuzz non ricorda nemmeno vagamente quella del suo ben più famoso collega e la parte solistica prende una piega tutta sua con i nostri a dar vita ad una versione funeral stoner di una delle canzoni più famose della storia del rock. Esperimento comunque riuscito e che ancora una volta, sottolinea la spiccata personalità del quartetto milanese. Con qualche correttivo, auspico che il terzo album sia molto meno derivativo di questo 'The Golden Dwarf' dando modo ai Satori Junk di essere ben più originali. (Francesco Scarci)

(Endless Winter - 2018)
Voto: 74

https://satorijunk.bandcamp.com/

domenica 31 marzo 2019

Colossus Morose - Seclusion

#PER CHI AMA: Funeral Doom, primi Anathema
Continua il nostro tragico percorso lungo i deprimenti lidi del funeral doom. Quest'oggi ci avviciniamo al debut album dei Colossus Morose, una band che raccoglie sotto lo stesso ombrello, nomi della scena tedesca (C.J. dei Transnigth) ed elvetico/norvegese (J.C. dei Black Sputum). 'Seclusion', tanto per cambiare edito dalla russa Endless Winter, contiene sei brani di catacombale funeral doom, quello che ormai ha ben poco da aggiungere ad una scena alquanto stantia negli ultimi tempi. Questo per sottolineare che quanto incluso in questo disco non è altro che una ripresa di suoni dei primi anni '90 (gli albori di Anathema e My Dying Bride), ravvivati da un piglio più moderno, che talvolta abbraccia anche il death metal e poc'altro. Non che 'Seclusion' sia un brutto album sia chiaro, gli amanti di simili sonorità anzi ne andranno certamente ghiotti. Il sottoscritto invece, che negli ultimi 30 giorni ha avuto modo di passare in rassegna decine e decine di band funeral doom, magari si trova un po' troppo saturato mentalmente da simili uscite proprio perché non trova più elementi caratterizzanti. E non è certo una gara a chi regala il riff più abissale, la voce più animalesca (e nella lunga "Catatonical Embrace", J.C. non si tira certo indietro per quanto riguarda le growling vocals) o la melodia più straziante. Il problema è questo genere di sonorità, le ho sentite ormai tonnellate di volte e avrei bisogno di una maggiore freschezza a livello compositivo per decretare davvero vincente un disco funeral. La proposta del duo internazionale poi è ancor più ruvida rispetto a quella di altrettanto esimi colleghi. La salvano le melodie retrò di "Tarnished" che peraltro chiude con una dissolvenza troncata in modo imbarazzante; poi è il turno della ferale "Perpetually Enthralled", in cui il growl del frontman rischia di sfociare in un suino slam. Fortunatamente le linee di chitarra di primissima scuola Paradise Lost, riescono nel compito di tenere su la baracca, altrimenti il rischio di un tracollo era davvero dietro l'angolo. La performance dei nostri sta in piedi anche e soprattutto grazie a "Six", un brano un po' più ricercato tra insormontabili montagne di oscuri riffoni death doom, altri riff melodici e porzioni arpeggiate. Interessante anche la conclusione affidata a "The Spiral Descent", almeno fino a quando il vocalist non emana il suo primo vagito, da rivedere assolutamente la componente vocale. Alla fine 'Seclusion' è un album di onesto death funeral doom che probabilmente poco ha da offrire ad un pubblico divenuto ormai più esigente. (Francesco Scarci)

martedì 19 marzo 2019

Wolf Counsel - Destination Void

#PER CHI AMA: Doom/Sludge, Saint Vitus, The Obsessed, Cathedral, Candlemass
A poco più di un anno di distanza dal terzo full-length 'Age of Madness / Reign of Chaos' (recensito qui sul Pozzo, come il precedente 'Ironclad' del 2016) tornano gli svizzeri Wolf Counsel con un nuovo gioiellino sludge/doom che farà sbavare i fan di Candlemass, Cathedral e Saint Vitus: preparatevi ad un’esondazione di riff, oscurità, esoterismo, metallo e — vi piaccia o no — continui rimandi ai classici del genere. I quattro musicisti sono ormai più che navigati, e si sente: nessuna esitazione, nessun calo di pathos, pochissime falle nel songwriting, il tutto condito da una produzione a cinque stelle — non è un caso che il disco esca per la russa Endless Winter, probabilmente una delle più stimate etichette specializzate in doom metal. L’apertura di 'Destination Void' è affidata ad una citazione evangelica in lingua spagnola (“Padre perdonali, perché non sanno quello che fanno”), che fa da intro all’esplosiva “Nazarene”: un riff a tutta chitarra costruito su una drittissima doppia cassa, su cui una voce alla Wino allestisce un indimenticabile ritornello. Fanno capolino i Black Sabbath in “Nova”, e subito il brano diventa una lentissima e ossessiva preghiera a qualche divinità oscura. C’è una nota epica nella successiva “Mother of All Plagues” che vi costringerà a ondeggiare la testa avanti e indietro, mentre le chitarre orchestrano un perfetto gioco a due voci nel bridge centrale. Sorprende l’intro con un solitario basso in tonalità maggiore di “Men of Iron Men of Smoke”: ma è solo un attimo — l’entrata delle chitarre sposta subito l’asse del brano verso un mood nero e fumoso come l’inferno, dove sono ancora i giochi tra chitarra ritmica e solista a guidare le danze. Silenziatosi l’inquietante organo che apre la title-track, gli Wolf Counsel ci riportano in territori di dannazione e malvagità con le ormai caratteristiche chitarre a battere il quattro (ecco i Candlemass, di nuovo) su un tempo lento e ossessivo, che torna poi epico con il contributo della melodia vocale. Un riff in palm-mute fin troppo citazionista dei Sabbath (cosa non lo è, nel doom metal, dopotutto?) apre “Tomorrow Never Knows”, mentre “Staring Into Oblivion” chiude il disco con i suoi dieci minuti di non originalissime chitarre monolitiche e scariche di doppia cassa, che lasciano poi spazio a quasi quattro minuti di solo ruvido e metallico fino al fade-out finale. Dunque, la domanda finale: il doom ha ancora qualcosa da dire o finirà per ripetere all’infinito i suoi canoni? Questo 'Destination Void' è una risposta: un lavoro che ha il sapore dei classici, ma suona come un disco moderno, peraltro nel solco dei precedenti lavori dei quattro svizzeri. Niente fronzoli, niente editing feroci o effettistica: solo ampli al massimo, passione per l’oscurità (e per la vecchia scuola del doom, chiaramente) e capacità più che rodata negli anni di scrivere pezzi memorabili. Se amate il doom ma non cercate a tutti i costi la sua evoluzione futura, amerete questo disco alla follia. (Stefano Torregrossa)

domenica 17 marzo 2019

Suum - Buried Into the Grave

#PER CHI AMA: Doom, Candlemass, Saint Vitus
La scena italiana brulica in tutte le sue forme e manifestazione, ma è solo grazie ad etichette come la russa Endless Winter che le band nostrane riescono a rilasciare i loro lavori. Non siamo infatti dietro a nessuno nel mondo in alcun genere, e i romani Suum lo dimostrano con una prova convincente che avvicina il sound dell'act italico a band quali Candlemass, Solitude Aeternus o Cathedral. Fatta questa premessa, addentriamoci un pochino di più nel debut 'Buried Into the Grave', un disco che inizia con "Tower of Oblivion" che al di là della classica ritmica doom alquanto ficcante, mi colpisce per una prova vocale che mi porta addirittura agli Heroes del Silencio, un gruppo rock spagnolo degli anni '80/90. Gli ingredienti per fare bene ci sono tutti, dal songwriting ineccepibile agli ottimi suoni messi in pista dal quartetto capitolino, passando attraverso una prova convincente di sette capitoli, mai troppo lunghi di durata, a dire il vero. I quasi cinque minuti di "Black Mist" mostrano più di una affinità con i Candlemass, soprattutto a livello vocale, mentre la musica lenta e sinuosa si affida ad un comparto ritmico formato da Marcas al basso, Rick alla batteria e Painkiller alla chitarra che con la sua sei corde sciorina una serie di ottimi spettrali assoli (notevole quello della title track), mentre il bravo Mark Wolf alla voce, continua ad offrire un'ottima performance, come già ci aveva abituato nei Bretus, o in passato, nelle altre innumerevoli band a cui aveva prestato la sua voce. Questo per dire che per quanto 'Buried Into the Grave' risulti a tutti gli effetti un debut album, abbiamo in realtà a che fare con musicisti alquanto navigati. Certo, sia ben chiaro che i Suum non reinventano il genere, però ne offrono la loro quanto meno personale visione e reinterpretazione, sfoggiando qua e là qualche brano davvero azzeccato. Personalmente oltre alla title track, ho apprezzato sicuramente la malinconica verve di "Last Sacrifice", che pur essendo meno tecnica rispetto alle altre, ha invece un quid melodico, che mi ha colpito più delle altre. Più monolitica ed orientata al versante doom dei primi Cathedral invece "Seeds of Decay"; poi la band ha ancora modo di offrire una traccia strumentale ("The Woods Are Waiting"), che funge più che altro da ponte d'interconnessione con l'ultima "Shadows Haunt the Night", ove le chitarre continuano a regalare riffoni old-school che ci portano indietro di quasi trent'anni, a farci capire che il doom è ancora vivo e vegeto e che forse mai morirà fintanto che nell'aria risuoneranno i riff che gli immortali Black Sabbath iniziarono a suonare ormai cinquant'anni fa e di cui ora si va in cerca solo dei degni eredi. (Francesco Scarci)

lunedì 11 marzo 2019

Fretting Obscurity - Flags in the Dust

#PER CHI AMA: Death Doom, primi Anathema
Quando di mezzo c'è la Endless Winter, è lecito aspettarsi solo una bella dose di death doom. Alla stregua della Solitude Productions, l'etichetta di Taganrog è ormai diventata infatti portatrice di tenebre sulla Terra. Non ultimi ad ascriversi alla categoria suoni del destino, arrivano gli ucraini Fretting Obscurity, o meglio l'ucraino Yaroslav Yakos, mente e braccio della band originaria di Kiev. Mi sa tanto che il buon Yaroslav deve essere cresciuto a pane e primi vagiti degli Anathema, visto che la lunga ed estenuante "Flags in the Dust", opener che dà peraltro il titolo al disco, lungo i suoi oltre 13 minuti, più volte fa l'occhiolino a 'Serenades' dei più famosi colleghi inglesi. Non solo Anathema nei solchi di questo disco perchè ovviamente quando il doom si fa più asfissiante (per non dire funeral), ecco che la mente ci riporta anche a 'As the Flower Withers' dei My Dying Bride. È il caso dei minuti conclusivi dell'opening track, ma emergerà anche in altri frangenti del lavoro. "If There Is No Other Way to Love 'Em" nel suo astruso e dissonante arpeggio iniziale, immette la drammatica essenza del doom nelle note poco fluide di un disco davvero complicato da digerire. Questo perchè i pezzi di Yaroslav, oltre ad essere parecchio lunghi (si oscilla tra i 13 e i 18 minuti di durata), non godono proprio di quello che si definisce easy listening. L'ascolto è frammentario, rotto, disarmonico, rarefatto, dissuadente e alla fine estenuante. Non è che la band non sia in grado di suonare sia chiaro, ma quello che è messo in scena qui, per quanto a tratti riesca a toccare le corde dell'emotività (e nella seconda traccia avviene solo dopo sette minuti), risulta davvero difficile da essere affrontato tutto d'un fiato. Pensate poi a come mi possa sentire quando mi ritrovo davanti due colossi da 18 minuti, "Eternal Return" e "Funeral Never Ends". Spaventato è la parola giusta. E non perchè ad attendermi ci sia un suono devastante, tritaossa o spaccabudelle, semplicemente perchè so già che lo stomaco si attorciglierà su se stesso e la mente collasserà dopo aver ingurgitato simili sonorità che nella prima delle due song, si lancia addirittura in una qualche accelerazione death, prima di sprofondare nella drammaticità atemporale di un suono radicale, che ha anche modo di richiamare la cupa essenzialità dei Mournful Congregation tra ipnotiche melodie di chitarra che evocano anche un che dei Tiamat di 'Wildhoney'. Alla fine, il quadro per il sottoscritto è più o meno delineato, a voi ora l'arduo compito di affrontare la scalata di una cosi ardua montagna. (Francesco Scarci)

(Endless Winter - 2018)
Voto: 64

https://frettingobscurity.bandcamp.com/

sabato 16 febbraio 2019

Fordomth - I.N.D.N.S.L.E.

#PER CHI AMA: Black/Doom
Dopo Solitude Produtions e sub-labels varie, anche l'altrettanto russa Endless Winter sta salendo in cattedra per ciò che concerne le uscite in ambito funeral doom. Addirittura questa volta la label della cittadina di Taganrog, ha messo sotto contratto i nostrani Fordomth, formazione sicula a ben sei elementi. 'I.N.D.N.S.L.E.', acronimo che starebbe per 'In Nomine Dei Nostri Satanas Luciferi Excelsi', è l'album d'esordio del sestetto di Catania, un lavoro che sebbene registrato nel 2015, è uscito solamente sul finire del 2018. Il genere? Un funeral doom dalle tinte più black che death, che va a dipanarsi lungo quattro estenuanti song (più una breve intro) per ben 55 minuti di musica. E di questi 55 minuti, balzano all'occhio i 24 asfissianti minuti di "Chapter III – Eternal Damnation" ma andiamo con ordine, perché vanno affrontati prima i quasi 12 iniziali di "Chapter II – Abyss of Hell", una song decisamente obliqua nel suo lentissimo e cupo avanzare. Quello che mi colpisce è un riffing, le cui due linee di chitarra, sembrano muoversi sui dettami dei primissimi Anathema la prima, e su quella dei primissimi Cathedral la seconda, intersecandosi pericolosamente in un abissale magma sonoro, da cui emergono i vocalizzi dei due cantanti, uno da orco cattivo a cura di Gabriele Catania e l'altro epico e sofferente ma pulito, di Federico Indelicato (che peraltro vede più di un'analogia con i vari frontmen passati per i Void of Silence), in una proposta alla fine dal mood quanto meno disperato e straziante, in quell'invocante incedere che somiglia più alla colonna sonora del peggiore dei nostri incubi. Evocante, insana, terrificante, sono solo alcune delle splendide sensazioni che pulsano dalla terza destabilizzante traccia, una maratona sonora che nel suo flusso angosciante, ha modo di regalare altre terrificanti emozioni da film dell'orrore, incanalandosi in plumbei pertugi ambient, che nuovamente mi hanno smosso nell'animo un che degli Evoken ma anche dei teutonici Traumatic Voyage dello splendido lavoro 'Traumatic...'. Piacevolmente colpito dalla malsana proposta della compagine sicula, mi lancio con somma curiosità all'ascolto di "Chapter IV - Interlude", giusto per capire come si possa intrattenere il pubblico con un interludio di quasi nove minuti. Presto detto, è sufficiente affidare il tutto ad uno straziante duetto formato dal violino di Federica Catania e da uno spettrale pianoforte, socchiudere gli occhi e provare a non disperarsi di fronte alla drammatica forza emotiva di questa band. "Chapter IV - Interlude" è la song che chiude il disco in un sordido death doom stile Anathema (periodo 'Pentecost III') in formato blackish, non tanto per i gorgheggi profondi (ma anche in screaming) del cantante ma per quell'aura mefistofelica che avvolge l'intero brano e che rende il tutto cosi tremendamente affascinante per il sottoscritto. Sebbene qualche ingenuità, legata ad una stesura ormai vecchia di quasi cinque anni, per me 'I.N.D.N.S.L.E.' è un intenso ed importante biglietto da visita per la band per spiccare verso lidi più lontani. (Francesco Scarci)

martedì 24 luglio 2018

Throne - Consecrates

#PER CHI AMA: Sludge/Doom, primi Cathedral
Con incolpevole ritardo, ci arriva sulla scrivania l'ultimo album degli emiliani Throne, ormai datato dicembre 2017 ed uscito per la Black Bow Records. L'etichetta britannica ci ha visto sicuramente bene, mettendo sotto contratto una band di un certo spessore che si traduce nelle note di questo melmoso 'Consecrates'. Dico melmoso perchè l'act parmigiano, ha modo di condensare nelle note di questo loro secondo lavoro, sludge e doom, prodigandosi in uno spesso lavoro di chitarre, che chiamano in causa i primi Cathedral. Notevole a tal proposito l'opener “Sister Abigail” e i suoi super chitarroni che, pur non sfondando completamente nello stoner, evocano un che degli Electric Wizard e dei giri di chitarra più blues oriented che ammiccano ad una versione decisamente più sedata dei Pantera, originale non trovate? Non aspettatevi però le stesse voci della band inglese, qui il frontman sfodera quel suo bel vocione da toro imbufalito in un pezzo che trova comunque conferme nelle successive song. Sicuramente degna di nota è “Lethal Dose”, non fosse altro per quel riffone ipnotico a inizio brano e quei cori puliti che si affiancano al growling possente del bravissimo Samu. La song vede peraltro la partecipazione di Dorian Bones, voce dei Caronte e dei Whiskey Ritual. Lo confermo comunque, i ragazzi ci sanno fare. Non so se sia l'aria di Parma e le prelibatezze che quella terra ha da offrire, ma i Throne si rivelano convincenti e speriamo anche vincenti nella loro proposta, in un ambito dove ormai la competizione sembra essere ai massimi livelli e solo i migliori ce la fanno a sopravvivere. Detto che auspico che i Throne siano tra questi, mi accingo ad ascoltare "Codex Gigas" e il suo liquido flusso sonico che lisergico quanto basta, mi investe con il suo pachidermico incedere. E se parliamo di pachidermia, come non citare la granitica e oscura "There's No Murder in Paradise", song sparata a rallentatore ma che conserva nelle sue linee di chitarra, un'interessante vena blues rock. Questa comunque la ricetta vincente per i nostri, che nelle loro tracce sono abili a intrecciare e miscelare ad arte il groove dello stoner e chitarre più seventies, pur mantenendo la profondità e la potenza del death doom come accade proprio nella quarta traccia che evoca nuovamente i sortilegi dei Cathedral di 'The Ethereal Mirror'. L'essenza doomish della band viene confermata anche in "Baba-Jaga", sebbene suoni ben più canonica rispetto alle precedenti, però l'assolo finale non è affatto male. Anche la più catacombale "V.I.R." ha il suo perchè, anche se alla lunga rischia un po' di perdersi per strada nel suo lento e ossessivo comparto ritmico che ammicca a più riprese allo stoner. A chiudere 'Consecrates', ecco arrivare la riverberatissima "Lazarus Taxon" e il suo classico rifferama stoner a sancire l'amore della band ancora per vecchi classici blues rock. 'Consecrates' alla fine è un buon lavoro che dimostra le grandi doti della band emiliana (seppur alquanto derivative) e prospetta un futuro sempre più positivo per la scena di casa nostra. (Francesco Scarci)

(Endless Winter Label/Black Bow Records - 2017)
Voto: 75

https://thronetheband.bandcamp.com/album/consecrates

lunedì 19 marzo 2018

Suffer in Paradise - Ephemere

#PER CHI AMA: Funeral Doom, Evoken
E se anche il paradiso può essere visto come luogo di sofferenza, allora qualcosa di malato dietro a questi russi Suffer in Paradise ci deve pur essere. 'Ephemere' è il secondo album rilasciato dal combo di Voronezh dal 2014 a oggi, quando si sono riformati per la seconda volta, dopo un primo scioglimento tra il 2010 e il 2014 appunto. Il genere di cui si fanno portatori è, manco a farlo apposta, quello del funeral doom, d'altro canto stiamo parlando di una band sotto contratto con la Endless Winter. Pertanto, negli oltre 60 minuti a disposizione, diluiti su sei vere tracce (c'è anche una breve outro), i quattro musicisti si lanciano in inni votati alla disperazione umana. L'opener, nonché title track dell'album, è un tunnel infinito senza fine, dove nemmeno il classico lumicino di speranza è dato al condannato a morte. Una song sfiancante che, pur non viaggiando su toni pesanti, affida tutto il suo essere estremamente opprimente, ad una forte componente atmosferica che trafigge l'anima, grazie ad un incedere cosi lento e deprimente, che mi lascia affranto senza parole. E l'aria asfissiante in stile Evoken non ci abbandona nemmeno nella seconda "My Pillory", dove anzi l'ambientazione si fa ancor più cupa, con un riffing appena accennato, un break corale, in cui sembra il coro di angeli depressi a prendersi la scena, ed infine il classico growling primordiale. Poi sono i tipici cliché a palesarsi: l'immancabile organo da chiesa, la tipica aura funeral e qualche break acustico che ci permette di emergere almeno per alcuni secondi dalle tenebre più profonde. Addirittura una sorta di assolo chiude una canzone che risuona come un invito alla cessazione della vita. L'inizio di "The Swan Song of Hope" si offre con più eleganza almeno fino a quando rientra in scena il growling possente di A.V. in una song sicuramente tanto maestosa quanto ridondante a livello ritmico che lentamente cresce d'intensità, di potenza, di personalità in un finale da brividi che trova modo di rompere anche le strutture compassate del funeral doom con raffinate partiture ritmico melodiche. Si ripiomba comunque nelle viscere del mostro con "The Wheels of Fate", un altro pezzo all'insegna della monoliticità di fondo di un suono coerente dall'inizio alla fine. Un muro di cemento contro cui scontrarsi e dove lasciare la nostra vita ormai privata di ogni significato. Un pianoforte apre la catacombale "The Bone Garden" che, a parte palesare una certa debolezza a livello del drumming a causa di una programmazione troppo sintetica, si dilunga in aperture di strumenti ad arco che ne enfatizzano il pathos drammatico. Ancora suoni a rallentatore con "Call Me to the Dark Side", l'ultima marcetta funebre di quasi dodici minuti a cui seguono a ruota i due di outro che chiudono un album a dir poco oscuro e pachidermico, ma alla fine, sicuramente estenuante. Only the braves! (Francesco Scarci)

(Endless Winter - 2017)
Voto: 70

https://sufferinparadise.bandcamp.com/

giovedì 8 marzo 2018

Decemberance - The Demo Years (1998-2001)

#PER CHI AMA: Death/Doom, primi The Gathering, primi Anathema
Considerate subito una cosa: avevo definito l'ultimo album della band ellenica una prova di sopravvivenza, cosa aspettarsi dunque da un lavoro che recupera i primi due demo della band, datati 1998 e 2001, che propongono una registrazione alquanto casalinga e che esordiscono con la marcia funebre? Francamente, io temerei il peggio. "Dying" è il primo pezzo, estratto dal demo d'esordio 'Decemberance', una song che mantiene per quasi tutta la sua durata, la melodia di fondo della marcia funebre appunto e su cui poggia il cantato sussurrato di Yiannis Fillipaios. Si va avanti con "When Darkness...", dieci minuti di suoni che lasciano intuire quello che il combo dell'Attica avrebbe concepito e migliorato nel corso degli anni, ossia un death doom robusto, sorretto da delle tastiere forse un po' troppo elementari, ma che mi hanno ricordato l'album d'esordio dei The Gathering, quelli estremi, non le derive pop rock dei giorni nostri. Comunque già s'intravedono quelle che saranno le peculiarità dell'act greco, con quei suoni violenti ed opprimenti, smorzati da un break acustico che scomoda pesanti paragoni con "Remember Tomorrow" degli Iron Maiden, mentre la voce del frontman è qui in versione growl, cosi come nella successiva title track, lenta ma venata di un alone orrorifico, con tanto di lamentosa voce femminile in sottofondo. A chiudere la prima parte del cd ci pensa la strumentale ed acustica "Sorrow". Vado ad affrontare il demo 'Just a Blackclad...' e prima cosa che posso notare è una registrazione leggermente più pulita ed un approccio musicale forse più feroce ma al contempo più votato alle tenebre, con accenni agli Anathema di 'Serenades' che si fanno più importanti. Il disco è un bel macigno da assorbire, non ne avevo dubbi; meno male che torna un break semi-acustico dal sapore barocco ad allentare una tensione che, si stava facendo via via sempre più pesante da tollerare. Certo l'incedere del disco è mastodontico ed ecco che mi sovviene un altro paragone col passato, quello con l'EP 'Preach Eternal Gospels' degli olandesi Phlebotomized. Ascoltare per credere ed apprezzare la monumentalità di ritmiche iper-distorte, che viaggiano in profondità, la cui pachidermia viene alleggerita dal suono di archi. "Numquam" è un Everest di 21 minuti da scalare tutti d'un fiato, e chi si ferma è decisamente perduto. E allora via ad affrontare l'ennesima inerpicata tra sonorità a rallentatore, delicati arpeggi di violino, gorgheggi d'oltretomba, sprazzi atmosferici, raffinati squarci acustici che evidenziano già un certo talento nelle corde di un ensemble che non vuole comunque rinunciare nemmeno alle classiche galoppate brutal death. Devastato, giungo all'ultima "...Of Decay and Sadness", in cui è il suono del flauto ad aprire le danze, prima di lanciarsi in una serie di divagazioni acustiche con tanto di strumenti ad arco, che per oltre sette minuti deliziano i padiglioni auricolari con della musica classica, che precede l'ultima breve fuga death metal di quest'interminabile ma affascinante raccolta. Ora che ho compreso da dove i Decemberance siano nati, tutto mi è molto più chiaro. (Francesco Scarci)

(Endless Winter/GS Productions - 2018)
Voto: 70

domenica 4 marzo 2018

Premarone - Das Volk Der Freiheit

#PER CHI AMA: Psych/Doom sperimentale, Nibiru
Inquietanti, da brivido, deliranti. Tornano i piemontesi Premarone con un secondo lavoro, 'Das Volk Der Freiheit', dalle forti tinte psichedeliche oltrechè psicotiche. Il quartetto di Alessandria, forte del nuovo deal con la russa Endless Winter, rilascia un mastodontico album di 60 minuti, coperti per buona parte, da sole due song. Si viene risucchiati immediatamente dal vortice lisergico dell'intro, che ci introduce alle cupe atmosfere di "Parte I - D.V.", un colosso di quasi 29 minuti di durata, in cui il doom claustrofobico dei nostri si fonde con lo psych, lasciando alle chitarre quel quid che evidenzia inevitabili reminiscenze stoner. Liquidare una traccia di mezz'ora in due sole righe sarebbe alquanto riduttivo, ecco perchè posso aggiungere che dopo sette minuti di suoni sfiancanti ed ipnotici, i quattro folli si lanciano in una serratissima ritmica black, che dopo qualche secondo, lascia posto a delle voci che richiamano la storia politica italiana. Questo perché il disco è in realtà un concept che propone una sorta di analisi personale dell'ultimo ventennio della storia politico-sociale dell'Italia: non sono solo le voci di politici (sempre all'insegna della par-condicio) quindi a palesarsi nel corso del flusso angoscioso di un brano, potente sia sotto il profilo musicale che vocale, ma anche pubblicità delle reti Mediaset con rievocazioni al Grande Fratello o ad altri programmi che arrivano dalle reti di Piersilvio. Dopodiché, spazio al delirio assoluto, tra kraut-rock teutonico, suoni progressivi che arrivano direttamente dai nostri anni '70, ma soprattutto tanta improvvisazione, il che significa originalità a profusione che non posso far altro che apprezzare. Certo, bisogna affacciarsi a questo disco con una mente assai aperta se non si vuole soccombere agli stralunati deliri musicali dei Premarone, che ci infilano nel loro poco confortevole shakeratore, buttandoci dentro ancora qualche elemento che scopriremo poco più in là, mentre le urla inviperite di Fra eccheggiano nel mio stereo, rievocandomi peraltro il cantato di una band storica del panorama italiano, i CCCP, quanto tempo. Stordito da brutali suoni schizofrenici, vecchie registrazioni vocali, rallentamenti abissali, synth che ci riportano ad un'altra epoca, mi accingo finalmente ad affrontare l'intermezzo ambient-drone di "Interludio - Interferenze", che con un titolo cosi non può far altro che alterare lo stato già di per sè alterato, del mio cervello. E allora, mentre scorrono suoni/rumori dal vago sapore casalingo, vi posso svelare la ragione del titolo in tedesco: 'Das Volk Der Freiheit' vuole infatti evocare lo spettro di un regime totalitario (andatevelo a tradurre su Google translator e capirete). Andiamo avanti con l'esplorazione degli ultimi venti minuti affidati a "Parte II - D.F.", una traccia la cui matrice ritmica ha forti sentori sludge/doom su cui si agitano poi le narrazioni di Fra, in una song apparentemente più stabile e lineare della precedente, ma che comunque ha ancora modo di sorprendere con i suoi (mal)umori, le sue nevrosi e gli abbattimenti, in una digressione musicale che sembra voler evidenziare quel decadimento imperante nel nostro amato paese. Alla fine, 'Das Volk Der Freiheit' è un signor album, sicuramente difficile da approcciare, ma che certamente sarà in grado di offrirvi un interessante spaccato dell'ormai deprimente società italica, dimostrando allo stesso tempo che almeno a livello musicale, l'Italia ha diritto di sedersi con i più potenti stati del mondo. (Francesco Scarci)

giovedì 22 febbraio 2018

Aura Hiemis - Silentium Manium

#PER CHI AMA: Funeral Doom
Ecco arrivare dal Cile l'ennesima one-man-band, capitanata da V., factotum di questi Aura Hiemis, in giro addirittura dal 2004 ma che per il sottoscritto rappresentano invece una novità, il che è strano considerato che all'attivo hanno ben quattro dischi, uno split ed un EP. Cercheremo di rifarci con l'ascolto di questo 'Silentium Manium', lavoro uscito a dicembre 2017 sotto l'egida della prolifica Endless Winter, ormai diventata sinonimo di funeral-death-doom. E Mr. V. (che ha peraltro un passato nei Mar de Grises che conosco invece assai bene), qui supportato da Lord Mashit, non tradisce le attese, forte di un lavoro dedito ad un inquietante e malinconico sound che con i dieci pezzi di questa release, riesce a trasmettere tutto il proprio pathos e dolore interiore, attraverso passaggi musicali lastricati di un profondo senso di pesantezza e disagio. Lo dimostrano i fatti: subito dopo l'intro strumentale di "Maeror Demens I" che insieme alle parti II, III, IV e V costituirà degli acustici bridge tra un pezzo e l'altro, sopraggiunge "Cadaver Fessum", esempio indefesso del monolitico sound proposto dai due musicisti di Santiago. Suoni a rallentatore, con riffoni inferti ogni cinque secondi e dilatati all'infinito, tastiere da incubo e vocalizzi da orco cattivo, raffigurano e certificano la proposta degli Aura Hiemis. Nulla è comunque lasciato al caso: il suono bombastico, gli arrangiamenti, l'ampio spazio affidato alla componente strumentale che dà enfasi alla drammaticità e al climax che s'instaura nel corso dell'ascolto di 'Silentium Manium'. Mi stupisce comunque l'originale approccio della band nel proporre la propria visione di doom: un esempio concreto è offerto da "Sub Luce Maligna", breve, quasi completamente acustica, sembra strizzare l'occhiolino ai primi Swallow the Sun. Analogamente fa "Between Silence Seas", e a questo punto deduco che sia il vero marchio di fabbrica degli Aura Hiemis per prendere le distanze dalla massa, che affida dei suoi quattro minuti spaccati di musica, la metà a suoni acustici e i rimanenti due alle sole chitarre, escludendo del tutto la componente vocale. Ma la cosa si ripete anche nella successiva "Frozen Memories", il che mi lascia ancora una volta perplesso perchè alla fine, "Cadaver Fessum" e la tremebonda ma atmosferica "Danse Macabre", sono gli unici episodi funeral doom del disco, in quanto il resto è un nostalgico flusso di suoni minimalisti, acustici e nostalgici. Ah, ultima segnalazione: il disco contiene dieci tracce, ma il lettore ne visualizza 11, questo perchè c'è la classica ghost track (quanto adoro ancora questi giochetti) che mostra un abito ancor diverso per i nostri, che partono da una ritmica quasi post black per poi affidarsi ad un suono più pulito e diretto che va a braccetto con l'utilizzo delle vocals, qui meno catacombali. Che stiano volgendo lo sguardo verso altri lidi? Lo scopriremo rimanendo sintonizzati sul canale degli Aura Hiemis. (Francesco Scarci)

domenica 18 febbraio 2018

Shattered Sigh - Distances

#PER CHI AMA: Death/Doom, primissimi Anathema
Dall'assolata Barcellona non poteva che giungere un album di solare... death doom. Si ringraziano pertanto i gentilissimi Shattered Sigh, qui al debutto, per regalarci il loro spaccato di suoni deprimenti provenienti dalla Catalogna. Sei tracce rilasciate per l'etichetta russa Endless Winter che per questo genere di sonorità, ha ormai affiancato la più che navigata Solitude Productions. Il disco si apre con le plumbee atmosfere di "Under Your Slavery" e le sue tastiere celestiali che, accanto ad un riffing corposo e pesantino e delle vocals catacombali, costituiscono l'architettura sonora degli Shattered Sigh. Per fortuna che si affiancano anche delle clean vocals che con una massiccia dose di keys, stemperano un animo che talvolta sembra propendere verso tendenze funeral. Le melodie sono comunque buone, seppur elementari e talvolta ridondanti, ma le qualità ci sono tutte e i margini di miglioramento direi notevoli. Per i nostalgici di 'Serenades' dei primissimi Anathema, date pure un ascolto a "Timeless", avrete da che versare lacrime nel ricordare quei vecchi tempi di decadenza ormai finiti nel dimenticatoio di molti, ma non del sottoscritto. E forse anche il sestetto catalano deve ricordare bene la lezione dei fratelli Cavanagh, visto che tra lugubri e funeree ambientazioni, votate ad un catartico sound di dolore e disperazione ("1214"), pezzi più "ariosi" e movimentati (leggasi l'omonima track "Shattered Sigh") o tracce dall'andamento più ritmato ("Alone"), alla fine gli Shattered Sigh sembrano proporre una rilettura piuttosto interessante degli Anathema di quei primi mitici anni '90. A chiudere ci pensa la drammatica "Thou Say Goodbye", song che rafforza il valore di questa release e che consente ai sei musicisti barcelonins di dire la loro nell'affollato mondo del death doom melodico. (Francesco Scarci)

sabato 10 febbraio 2018

Nordlumo - Embraced by Eternal Night

#PER CHI AMA: Funeral Doom, Ea
Ho ricevuto le nuove release targate Endless Winter e per la scelta della prima recensione, ho preferito lasciarmi guidare dalla cover più suggestiva. I russi Nordlumo (in realtà una one-man-band guidata da Nordmad) hanno vinto alla grande con il loro nuovo 'Embraced by Eternal Night', grazie ad un'aurora boreale che avvolge un enigmatico tutt'uno formato da una chiesa incastonata in una montagna, strana combinazione. Il musicista siberiano, seguendo poi la politica tracciata dalla propria label, propone un cupissimo funeral doom che si esplica attraverso sei tracce, di cui l'ultima, "Weathered", è una riuscitissima quanto nostalgica cover dei finlandesi Colosseum. Il disco parte alla grande con la lunga "The Autum Fall", oltre otto minuti di suoni decadenti, dove la voce del mastermind di Severomorsk, non si palesa mai, lasciando invece largo spazio a melodie oscure. Per godere dei vocalizzi in growl del bravo factotum russo, basta giungere alla seconda traccia, dove il funeral s'incastra meravigliosamente con passaggi sognanti, a tratti ambient, corredati dai vocalizzi imperiosi del frontman, srotolati in oltre 23 minuti di musica che incorporano un profondo struggimento, segno di un forte disagio interiore, risultando alla fine assai spettacolare. La traccia è infatti cosi varia nella sua progressione, tra cambi di tempo, accelerazioni, squarci melodici e angoscianti rallentamenti abissali, che alla fine delineano per sommi capi la proposta musicale di Nordmad, peraltro encomiabile anche a livello strumentale. "Scripts" ha un ritmo più baldanzoso, per quanto questo aggettivo essere applicabile possa in un ambito cosi funereo. Comunque, la song è più ritmata forse in apparenza meno varia (non fosse altro per un catacombale pianoforte che irrompe a metà brano), mentre le vocals si dilettano tra un profondo grugnito animalesco, qualche urlaccio ed un tenebroso sussurrato. Il dolore alberga incontrastato anche in "Dreamwalker", un'altra maratona di quasi un quarto d'ora di lugubri atmosfere, ottime melodie a rallentatore evocanti un ipotetico mix tra Ea e Saturnus, dove fanno capolino anche delle clean vocals. A chiudere (ma ci sarà ancora tempo di gustare la spettralità della già menzionata cover dei Colosseum) ci pensano le celestiali atmosfere di "Millenium Snowfall" che confermano la bravura e la vena creativa del bravo Nordmad. (Francesco Scarci)

(Endless Winter - 2017)
Voto: 80

lunedì 8 maggio 2017

Decemberance - Conceiving Hell

#PER CHI AMA: Death/Doom, Morbid Angel, My Dying Bride
I greci Decemberance ci propongono la loro maratona musicale, non tanto per rievocare l'evento epico della corsa di Filippide, che dalla città di Maratona andò all'Acropoli di Atene per annunciare la vittoria sui persiani, più che altro perché i quattro pezzi qui contenuti, costituiscono una lunga prova di sopravvivenza di ben 74 minuti dediti ad un death doom psicotico. Ci hanno impiegato otto anni i nostri per rilasciare un nuovo album dopo che il debut 'Inside' era uscito addirittura 12 anni dopo la loro fondazione. Gente riflessiva mi viene da dire, ma veniamo ad analizzare un disco tra i più difficili che mi sia capitato di ascoltare nell'ultimo periodo. Dicevamo che 'Conceiving Hell' include quattro song, tutte che si aggirano sull'estenuante durata di 18 minuti. Si parte con il robustissimo techno death di "The Scepter", che mi lascia un attimo perplesso di fronte alla proposta della compagine greca: dopo qualche minuto di tortuosi giri di chitarra, ecco che i nostri fanno in modo che chi li ascolta sia inghiottito dalle fauci delle bestia, con un sound catacombale. Là dove la luce non è contemplata, il vocalist sussurra qualcosa nelle vostre orecchie, forse che non vi è alcuna speranza di uscire vivi dalle viscere infauste del mostro. Invece, inaspettatamente ecco apparire dei riffoni death e delle growling vocals che hanno il merito di cavarci fuori da quell'impasse spaventosa. Il sound è complesso, lo devo ammettere, perché questo gioco di luci e ombre si ripropone più e più volte nel corso della song, che trova la sua summa nella presenza del violoncello di Ioanna Bitsakaki che per un attimo smorza l'incedere distorto di una band che nel finale mi ha richiamato 'Gothic' se non addirittura 'Lost Paradise' dei Paradise Lost. I primi venti minuti se ne sono andati ma che faticaccia: parte la chitarra acustica di "Departures" accompagnata dalla struggente melodia del violoncello, poesia per le mie orecchie, un po' meno quando il robustissimo riffing del quartetto ateniese fa in modo che cali improvvisamente una notte senza stelle in una splendida giornata di sole. Il sound è totalmente rallentato, gli echi degli Anathema di 'Serenades' emergono forti, cosi come le influenze di primissima scuola My Dying Bride. Il trittico del doom per eccellenza l'abbiamo rievocato in toto, per descrivere un lavoro che se fosse uscito nei primi anni '90 avrebbe sicuramente rappresentato un must per tutti coloro che seguono il genere. Nel 2017, i quattro ragazzi dell'Attica hanno dovuto applicare qualche variazione al tema per suonare credibili, ed ecco spiegato perché accanto alle drammatiche e decadenti atmosfere imbastite dalle meravigliose corde del violoncello (suggestivo il break a metà brano), sia anche altrettanto facile trovare dei riff che con il genere hanno ben poco a che fare e sembra piuttosto di trovarsi di fronte i Morbid Angel. Ecco, i Decemberance potrebbero essere etichettati come un insolito ibrido tra l'Angelo Morboso e La Mia Sposa Morente, facile no da intuire a questo punto il sound granitico dei nostri? Non ancora direi perché accanto al rifferama death old school potrete trovarci anche elucubrazioni ambient, intermezzi schizofrenici o lunghe intriganti fughe di musica prog ("The Blind Will Lead the Way"), ma poi sarà sempre la bestia ad avere l'ultima parola, sfoderando suoni dissonanti, psicotici a tratti orrorifici, in linea con le liriche malsane della band. Se ancora non l'avete capito, 'Conceiving Hell' non è assolutamente un album facile a cui accostarsi, bisogna avere la mente sgombra di pensieri e senza paura si affronti l'elevata possibilità di terminarne l'ascolto frastornati, disorientati o forse totalmente pazzi. Di sicuro il suono del mare della conclusiva "Sailing..." mi ha aiutato a riprendermi dall'ascolto di un album controverso e mastodontico, che potrebbe fare la gioia degli amanti del death più ostico ma anche di coloro che apprezzano il doom più romantico, o forse nessuno di questi. Bel rischio si sono presi i Decemberance, a voi l'ultima parola... (Francesco Scarci)